Fa girar le palle. E ci riesce anche bene. Sul tavolo da biliardo. Con la stecca di legno. «Il mio nuovo pennello». Perché prima di diventare «il più forte giocatore di carambola della Sardegna ero un pittore». Abbassa la voce, si accarezza i capelli già bianchi e lascia la memoria libera di inseguire un passato macchiato di sangue. «È successo tutto vent'anni fa, a Teslic, il piccolo paese della Bosnia dove sono nato». E da dove è fuggito per dimenticare lo strazio di guerra e pulizia etnica nella ex-Jugoslavia. «Ho un solo ricordo». Indelebile come i quadri dipinti da giovane. «Non dimenticherò mai la voce di mio padre». Messaggero di morte al telefono. « Pronto, pronto, figlio caro, mi senti? hanno ucciso tuo zio. Povero fratello mio, gli hanno tagliato la testa, qui ci ammazzano tutti ». L'orrore viaggiava in teleselezione, amplificato dal rumore di fondo sul filo di una vecchia cornetta. «Ancora non c'erano i cellulari». E, per fortuna, a Teslic non c'era neanche lui. «Mi ero già trasferito in Italia. Non sono più tornato in Bosnia».

Da quel giorno la sua vita è cambiata. Ma prima Dado Smajlovic, che oggi ha 56 anni, moglie e due figli «nati e cresciuti in Sardegna», giocava a carambola e dipingeva paesaggi «con i colori a olio». E con un rimpianto. «A Roma ho avuto un'offerta per restare nel mondo dell'arte. Ho rinunciato a un futuro da pittore per venire a Cagliari. Ho cancellato in un attimo il mio primo amore, senza pensarci troppo».

Il Dado è tratto. «Sulle pareti di casa non ho neanche un quadro fatto da me. Mia moglie non me lo perdonerà mai, li ho venduti tutti». Ma non ha smesso di dipingere. «Ho solo cambiato pennello: anche il biliardo è arte e le sponde incorniciano la tela verde stirata sul piano d'ardesia. Dove tre biglie, gialla, rossa, bianca, si muovono, leggere, per tracciare con tratto sicuro figure astratte quanto indecifrabili». Colpi di genio e di colore degni di Kandinsky: durano appena un attimo, prima di fissarsi nel ricordo di quello strano pittore mancato. Accompagnati da una sinfonia per stecca e palle: toc, stunff, stunff, stunff, toc: carambola . Con la tua biglia devi colpire le altre due: se ci riesci fai punto e continui, se sbagli tocca al tuo avversario. «Quando ho iniziato ero ancora studente al liceo artistico». Andava bene a scuola, meglio nelle sale da biliardo. «Adoro giocare da solo: io contro io, mi diverto di più quando sono anche il mio avversario. Imparo da me, dai miei errori». E se qualcuno, scherzando, gli chiede “ Dado, come è andata contro il tuo sosia? ”, dà sempre la stessa risposta. «Uno a uno. È una vecchia storia, un problema di sopravvivenza: il colpo migliore è quello che devo ancora inventare». Sì, meglio un pareggio. Perché il giorno in cui vincerà anche la partita impossibile contro se stesso smetterà di giocare a carambola .

Non c'è fumo, né puzza di sigaretta nella sala ancora vuota di un circolo che, lentamente, si riempie quando lui prende in mano la stecca, sporca appena la punta col gesso e inizia a giocare. «Mi piace sperimentare». Ripetere cento, mille volte lo stesso colpo per ottenere sempre un identico risultato. «Mi sento uno scienziato, un ricercatore, sfido le leggi fisiche». Con tre palle d'avorio e una stecca costruita su misura. Come un abito cucito in sartoria. «È divisa in tre parti, tutte in legno, materiale vivo». Poco più di mille euro per quel nuovo pennello che da solo non basta per diventare un campione. «Conta soprattutto la tecnica. Nel biliardo la fortuna è un fantasma: c'è ma non lo vedi, non lo senti, non lo cerchi». Anzi, se puoi, lo scacci. «Arriva quasi sempre per aiutarti quando hai commesso un errore». E per giocare anche il colpo più semplice ci vogliono tempo, tranquillità, ispirazione. Soprattutto per evitare la steccaccia . «Batti la palla e quella se ne va per conto suo, senza controllo». Perché il biliardo è per molti, ma non per tutti. E sul tavolo verde l'equilibrio resta la dote migliore. Braccio e testa convivono: uno scambio costante di informazioni per calcolare traiettoria, forza di impatto, velocità e rotazione. Toc, stunff, stunff, stunff, toc: carambola . Anche quando le due biglie da colpire con la tua sono molto lontane l'una dall'altra. «A scuola ero bravo in geometria, ho imparato da piccolo a ragionare sulle figure che i miei compagni odiavano». Poi, crescendo, ci ha messo del suo. Con un tocco di intelligenza mescolata a un pizzico di follia. «Il mio segreto? Sul piano del biliardo ci sono sempre quattro palle, ma la quarta non esiste: è solo un riferimento». Come giocare a poker col morto. «Il tavolo è mare aperto, hai bisogno di una bussola per orientarti». E la biglia immaginaria segna il nord per evitare collisioni non previste. «Partenza, rotta, punto di battuta e arrivo: la quarta palla è una fonte inesauribile di informazioni. È col suo aiuto invisibile che un campione, un vero professionista può dichiarare il colpo prima di battere la biglia». Perché, in fondo, il giocatore di biliardo era e resta uno spaccone. E con la vita di sponda e di carambola si guadagna anche bene. «Mi è capitato da ragazzo, giocavo a scommessa». Sempre in cerca di un portafoglio da ripulire. «La presunzione serve per andare avanti nella vita, ma quando hai in mano la stecca diventa un pericolo». Lo sbruffone fa una brutta fine: prima parla, parla, parla. Poi paga. E un pollo grasso e prepotente non è difficile da trovare. «Uno lo ricordo bene: gli ho lasciato le prime tre partite, poi ne ho vinte trenta di seguito. " Dado, hai solo fortuna " mi diceva e chiedeva la rivincita». Risultato? «Alla fine ho guadagnato trenta volte quello che avevo perso all'inizio. Ma questa non è carambola : è solo un modo per fare soldi». Lo dice senza vergogna, poi difende l'arte che ha imparato da giovane. «Una gara può durare anche tre ore, bruci tante energie, come in qualunque altro sport. Per diventare professionisti serve un fisico perfetto, una dieta rigorosa, palestra e allenamento tutti i giorni, la vita che non ho mai fatto io». E anche se non crede Dio, solo Lui sa quanto «mi sarebbe piaciuto diventare un professionista».

Seduto davanti ai tavoli verdi illuminati a giorno come sale operatorie, Dado Smajlovic dà le spalle al bar del Tempio del Biliardo, la sua «seconda casa da quando vivo a Cagliari» e ammette una colpa. «Fumavo ottanta sigarette al giorno, vivevo al circolo diciotto, anche venti ore. Sono andato troppo spesso oltre i miei limiti perché volevo sfondare, ma sono rimasto solo un buon giocatore, ho sbagliato strada». Oggi va meglio. «Col fumo ho chiuso il conto quindici anni fa, dopo i campionati italiani di Paternò, in Sicilia. Non riuscivo più a respirare e mi sono detto “ Dado, adesso basta con le sigarette ”». E con il resto. «Ho riscoperto il piacere di avere una famiglia trascurata per troppi anni». Schiavo di quel gioco che gli ha mangiato metà della vita. Passava ore e ore ad ascoltare il rumore dello sponde toccate dalle biglie, spesso solo sfiorate. «È un canto che devi saper interpretare. Attrito, umidità del tavolo, reazione della stecca, niente è lasciato al caso quando sei un campione». Come il belga Raimond Chellemans «il più grande giocatore di biliardo di tutti i tempi: lo chiamano mister cento anche se ha appena compiuto ottant'anni». Soprannome azzeccato, mirabile sintesi del numero dei tornei vinti in carriera da un pensionato che, stecca alla mano, ancora si difende. «La sua dote migliore è la capacità di concentrarsi soprattutto quando vince». Segue una regola vecchia, ma sempre valida. «“ Dado, non lo dimenticare mai: si distrae chi guida il gioco, non chi perde ”». E mister cento non vede e non sente nulla sino a quando non ha chiuso la partita». Nella sala è solo. Col biliardo e tre biglie. Per calare ancora una volta l'asso di stecca sul tavolo verde: toc, stunff, stunff, stunff, toc, carambola .

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