Elementi di cristianità, la suggestione dei pellegrini, ipotesi, dubbi e nuove scoperte sul complesso della Domus dei mosaisi marini, la struttura emersa nell’area archeologica di Turris Libisonis, la città romana di Porto Torres.  I particolari sono stati illustrati in occasione del convegno storico culturale “I prodromi della cristianità nella città di Turris Libisonis”, organizzato dalla Curia in occasione della ricorrenza della Dedicazione della Basilica di San Gavino. Un’iniziativa a cui ha partecipato l’arcivescovo, Gianfranco Saba, Gabriella Gasparetti e Gianluigi Marras, rispettivamente responsabile e funzionario archeologo della Soprintendenza ABAP per le Province di Sassari e Nuoro. A illustrare il progetto l'archeologa Gasperetti, responsabile del procedimento, della progettazione e direzione scientifica dello scavo archeologico, finanziato dal segretariato regionale del Ministero della cultura con fondi pari a 577.200 euro, e beneficiario di un ulteriore finanziamento da 1 milione di euro.

Un edificio a tre livelli con dieci ambienti con rivestimenti musivi di particolare bellezza: un piano rettangolare, un vano absidato, un piccolo ambiente absidato, un corridoio, un vano con una grande vasca, due ambienti piccoli laterali, a cui si aggiungono le ultime scoperte dello spogliatoio, il grande vano rettangolare e il vano absidato più ampio al piano zero. Gli elementi rivelano che l’edificio ha avuto almeno due periodi di utilizzo, uno nel III secolo d.C. e uno finale del IV - V secolo d.C. Se negli scavi 2003-2004 il complesso sembrava una lussuosa Domus patrizia della città padana antica, con ambienti disposti su più livelli, panoramici sul Rio Mannu, un complesso di una ricchezza notevole. Lo scavo del 2022 ha rivelato nuovi particolari sulla domus che consentono di avanzare le ipotesi che si tratti di un apparato termale che si estende per un isolato intero. La presenza di un’area riscaldata e di ambienti freddi fanno pensare ad un ambiente termale divenuto in seguito un luogo di culto cristiano.

A confermare l’ipotesi una scena raffigurante due individui, probabilmente riconducibile al rito della “fractio panis”, il gesto della frazione del pane compiuto da Cristo nell’ultima Cena, e poi l’iscrizione paleocristiana in lettere capitali che recita “Deo gratias qui praestitit”, (grazie a Dio che ha provveduto), datata nella seconda metà IV secolo d.C. Inoltre nella parte superiore del complesso un utilizzo per sepolture, di adulti e infanti. Mentre nella parte estrema del  vano ci sarebbe una sepoltura di rango, un’area in cui sistemare accuratamente un individuo privo di corredo in cui sono in corso delle indagini per l’esame del Dna, un corpo posto di lato che secondo alcuni studiosi era una posizione che poteva riguardare i pellegrini , ovvero gli individui stranieri. «A favorire l’ingresso di altre genti, il porto e il Rio Mannu, una zona rivolta verso uno degli ingressi della città antica che poteva accogliere i pellegrini, gli stranieri e, la stessa iscrizione cristiana rinvenuta all’interno delle mura, potrebbe significare qualcosa dell’accoglimento di un culto proveniente da altre comunità» spiega l’archeologa. Un porto che ha portato genti, merci, culture, religioni e spiritualità. 

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