«Considero il linguaggio di “Creuza de Mä” ancora attuale, contemporaneo. Ogni volta che suono quei pezzi mi tornano in mente un commento di Fabrizio e tanti momenti trascorsi insieme. È un modo per sentirmi a casa». Mauro Pagani, compositore e polistrumentista, anima della Pfm in tempi gloriosi, celebra i 40 anni di un album, composto nel 1984 insieme a Fabrizio De Andrè, che è stato un punto di svolta della storia della musica in Italia. E rinnova quei ricordi portando i brani di quel fortunatissimo progetto artistico in giro per l'Italia. Sabato 27 luglio è prevista l’unica data sarda del tour a Siddi, nell'area della tomba dei giganti Sa Domu e S'Orcu, con inizio alle 19, nell'ambito della rassegna “Appetitosamente” che unisce arte, musica e il buon cibo. “Con Fabrizio – ci dice- abbiamo lavorato insieme quasi 15 anni.  Nel concerto canto anche alcuni pezzi dell’album “Le Nuvole”, un altro disco senza tempo. È un regalo che faccio a me stesso.  Questo concerto è il racconto della mia vita. Lo considero un grande regalo della sorte. C’è tanta vita dentro. Ricerche, esperimenti, errori, ingenuità giovanili. Adesso mi sento come un vecchio saggio”.

Come è nato “Creuza de Mä? Quali sono le sue radici?

Nasce in un terreno fertilissimo, dai progetti e dalle ricerche della Nuova Compagnia di canto popolare, del Canzoniere del Lazio, di Moni Ovadia che si confrontava con le musiche dei Balcani, di Roberto Leydi, Ernesto De Martino, Alan Lomax.

Nel 2023 Carloforte le ha reso omaggio con la cittadinanza onoraria. Ha uno stretto rapporto con la Sardegna.

Ci sono poche terre come la Sardegna in cui la tradizione musicale è così viva. Ho una grande passione per la musica vocale sarda, una delle più belle del mondo. C’è rispetto, c’è conoscenza, è una terra in cui la tradizione popolare coincide con la vita quotidiana. Ci sono dischi che conosco da 50 anni e che continuo ad ascoltare. Ho sempre apprezzato il Quartetto di Aggius. Una cultura che ha tutto il mio rispetto.

Quando è nato il sodalizio artistico con Fabrizio De Andrè?

L’incontro con lui ha cambiato la mia vita artistica.  È successo per caso, Nel 1980 ero in uno studio di registrazione a Carimate. C’erano due sale.  Io registravo un lavoro per Gabriele Salvatores, “Sogno di una notte d’estate”. Fabrizio stava registrando “L’Indiano”. Si viveva lì. Siamo diventati amici in quell’occasione. Lavoravamo poco, però leggevamo i giornali, commentavamo i fatti del giorno, guardavamo la televisione. Dico sempre una cosa che fa un po’ ridere, ma è abbastanza vicina alla realtà. Fabrizio, da buon genovese, si era reso conto che la Pfm aveva riempito i suoi pezzi di mandole, mandolini, flauti, corde di ogni tipo. Io suonavo tutti questi strumenti, per cui se mi ingaggiava avrebbe risparmiato.

E così ha partecipato al tour de “L’Indiano”.

Viaggiavamo insieme. In auto ascoltavo le cassette che mi ero preparato, lavoravo da diversi anni sul materiale mediterraneo. Ascoltavamo insieme quella musica. E lui diceva: è bella mi piace. Basta con gli americani. Non gli davo retta all’inizio perché era un cantautore famoso per la sua pronuncia italiana e il suo modo di cantare molto di maniera. Invece, come “Creuza de Mä” ha indicato, era necessario avere una lingua che consentisse di biascicare le parole, di allungarle, di farle diventare onomatopeiche. Una mattina mi ha detto: perché non lo facciamo in genovese. Mi sono subito reso conto che era l’idea giusta. Avevamo pensato di utilizzare una lingua inventata ma non sarebbe stata la stessa cosa.

Quali erano i pensieri di Fabrizio De Andrè nel momento della creazione artistica?

Era l’uomo dai mille dubbi: Sei sicuro? Attento, lo rifacciamo. In realtà rischiava più di me. Era lui il cantautore famoso per i testi in italiano. Abbiamo cominciato a lavorare ad agosto, abbiamo finito a dicembre del 1983. Ero a pezzi. Mi sono ammalato. Sono rimasto a letto due mesi con la polmonite. Il lato forte dell’album è l’ispirazione generale, è un atto d’amore nei confronti del Mediterraneo

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