«Sì, mio figlio lo immagino in cielo».

Lo stesso cielo che scruta per lavoro?

«È una deformazione professionale: appena si alza la mattina, il meteorologo guarda lassù. Lo faccio sempre, e sì, penso a mio figlio».

Lei è credente?

«Fede e ragione non sono complementari. Sono un uomo di scienza, per il resto diciamo che vivo nel dubbio».

Alessandro Gallo è l’uomo del sole e delle nuvole. È il meteorologo che sulle colonne dell’Unione Sarda ci anticipa l’umore del tempo, sicché non è facile stanarlo dal rigore dei modelli matematici e fisici che leggono le dinamiche dell’atmosfera e della volta celeste. Maresciallo dell’Aeronautica in pensione, cagliaritano, 58 anni, sposato con Barbara e papà di due ragazzi: Daniele, laureando in Filosofia, e Matteo, il primogenito, nato con una cardiopatia congenita e morto a ottobre del 2022 in un letto della terapia intensiva del Sant’Orsola di Bologna. Aveva appena compiuto 31 anni, e dal mese di agosto - quando tutto è precipitato - era uscito dalla lista trapianti: il suo organismo non era più in grado di ricevere un cuore nuovo. «Gli ultimi due giorni si è svegliato per dirci “vi voglio bene”». È dall’ora più buia («Erano le 11,55 del 27 ottobre») che ha cominciato a guardare il cielo anche a prescindere dai modelli matematici. «Matteo se n’è andato a un anno esatto dalla morte del nonno, il padre di mia moglie. Erano molto legati, e quando ci penso ricordo un episodio che al momento mi aveva spaventato...».

Cos’è successo?

«L’ultima estate, durante il ricovero in terapia semintensiva a Bologna, si è svegliato parlando in siciliano. Gli ho chiesto: “perché parli così?”. Perché sto chiacchierando con nonno, mi ha risposto. Il nonno era siciliano di Catania».

Come se l’è spiegato?

«Mi sono detto che magari erano gli effetti dell’anestesia... Poi, riflettendoci, i dubbi ti vengono. I dubbi su qualcosa che la scienza non può spiegare».

Per questo lo immagina in cielo?

«Sì. Chi l’ha sognato dice che lo vede assieme al nonno. Io non l’ho mai sognato. Solo una volta, nel dormiveglia, mi è parso di vederlo: gli occhioni spalancati, sorridente, mi diceva “Cucù”. Era un gioco che faceva da bambino. L’ultima volta, quando era in terapia intensiva, poco prima della morte. Mi disse che con la coda dell’occhio vedeva una bambina bionda, lì nella stanza...».

La bambina c’era?

«Sì, era una piccola paziente che stava con i suoi genitori. “Papà”, mi disse, “falla ridere ti prego. Vai e falle cucù, vedrai che ride”. È morto tra le mie braccia».

Poteva andare diversamente?

«Da genitore, direi sì. Però questa mia risposta non renderebbe giustizia a chi, come il dottor Roberto Tumbarello e la dottoressa Monica Urru della cardiologia pediatrica del Brotzu, ha comunque fatto tanto per salvargli la vita, anche combattendo a mani nude. La verità è che è una domanda senza risposta».

Perché parla di medici che combattono a mani nude?

«Perché questa è la condizione di chi, pure con grande professionalità e passione, lavora in un sistema come il servizio sanitario pubblico che fa acqua da tutte le parti. E per di più fa rabbia pensare che, laddove c’erano delle eccellenze, come la cardiochirurgia pediatrica del Brotzu poi diventata cardiologia pediatrica, quello stesso sistema ha finito per dilapidare un patrimonio».

È il reparto che ha sempre seguito suo figlio, anche da adulto?

«Sì, i pazienti con una cardiopatia congenita vengono seguiti a vita dai cardiologi pediatrici. La malformazione di Matteo era una trasposizione dei grossi vasi, in pratica il suo cuore lavorava all’opposto dell’anatomia di un organo normale. È nato al Brotzu il 23 ottobre del ‘91 alle 16,33. Dodici ore dopo era già sotto i ferri».

Allora un reparto all’apice dell’operatività anche in sala operatoria.

«Cagliari era un’eccellenza della cardiochirurgia pediatrica tanto voluta dal professor Valentino Martelli. In quel periodo oltretutto era in corso una convenzione con l’ospedale “Jacques Cartier” di Parigi e periodicamente arrivava al Brotzu il professor Yves Lecompte, un luminare».

Matteo è stato operato di nuovo?

«Sì, sempre a Cagliari, non aveva neanche tre mesi. Nel ‘96 un’altra operazione a Parigi, e già la cardiochirurgia pediatrica del Brotzu stava perdendo i primi pezzi. Al rientro è sempre stato seguito al Brotzu dal dottor Tumbarello. Lo conosco da 31 anni, quando è nato Matteo lui era alle prime armi. Un medico che noi sardi dovremmo tenerci stretto, il Gigi Riva della cardiologia pediatrica. Aveva previsto che entro la terza decade di vita, Matteo doveva essere comunque trapiantato».

I primi segnali quando li ha avuti?

«A 20, 21 anni ci sono stati i primi episodi di tachicardia e per questo lasciò l’Università, facoltà di Lettere e filosofia. A febbraio 2015 il primo ricovero lungo al Brotzu, gli è stato impiantato un defibrillatore sottocutaneo. A maggio era già a Bologna per il primo cateterismo cardiaco. A gennaio 2018, Matteo è entrato in lista trapianto».

Come si arriva all’ottobre del 2022?

«Soffriva di episodi di tachicardia ma faceva la sua vita di ragazzo: il lavoro nella cooperativa Ctr onlus; l’amore per Emma, la fidanzata; i bagni in mare alle quattro del mattino, le uscite serali. Andava a Bologna solo per il cateterismo cardiaco, un ricovero periodico di 20 giorni di screening ed esami. Col Covid è precipitato tutto».

Racconti.

«Sono emerse tutte le falle della sanità. Matteo, con la tachicardia, ha atteso anche 15 ore in pronto soccorso. Dodici ore, tante altre volte. Nel 2021 da Bologna premevano perché si trasferisse, anche Tumbarello cercò di convincerlo, finché si decise che sarebbe stato lì a ottobre del ‘22. Mio figlio era sempre e comunque sotto controllo, finché ad agosto, lo scorso anno, la situazione è precipitata. Dal Brotzu attivarono il protocollo per il trasferimento d’urgenza a Bologna, ma il volo sanitario è stato programmato con l’elicottero invece che col Falcon dell’Aeronautica. È decollato quattro giorni dopo per problemi di turbolenza in quota».

Matteo non ce l’ha fatta, altri ragazzi invece sì…

«Un mese fa ho ricevuto una splendida notizia: era arrivato il cuore per Maria, una bambina di otto anni. Oggi sta bene, è fuori dall’ospedale ma siccome è ancora sotto osservazione alloggia coi genitori in un appartamento del Polo del cuore, residenza vicina all’ospedale a disposizione delle famiglie».

Sono legami che non si spezzano...

«È così. Ci sentiamo tra genitori, e ogni tanto sento anche Simone, un ragazzo di Genova che era stato appena trapiantato durante l’ultimo ricovero di mio figlio. Faceva gli esercizi e gli diceva: “Dai, che siamo forti”. Alla fine si diventa una famiglia, a prescindere da com’è andata l’avventura. La morte di Matteo non può, non dev’essere il muro di Berlino fra noi e i ragazzi trapiantati. È la vita che vince sempre».

Piera Serusi

© Riproduzione riservata