Se in pasticceria si usasse la carta bollata, sarebbe la più gelida delle torte in faccia. Giovedì 3 luglio, una manciata di ore prima del 33° congresso del Partito liberale italiano, il segretario Roberto Sorcinelli – 53 anni, cagliaritano, avvocato – si è visto notificare un’ordinanza del giudice che in sostanza diceva: la sua leadership è sospesa, non si azzardi a parlare in nome del Pli. Perciò il congresso si è trasformato in un raduno di amici di sentimenti e cultura liberali. Affratellati dall’amore laico per il capitalismo ma soprattutto, almeno in quelle ore convulse nell’hotel Nazionale di Roma, per l’insofferenza verso il vecchio leader Stefano De Luca, archiviato ma capace, centrandolo con la pallottola d’argento di una richiesta di sospensiva, di paralizzare il Pli in un limbo a tempo indeterminato.
Sorcinelli, un’ordinanza così tempestiva è un caso, un dispetto, una maledizione?
«Andrebbe chiesto a loro. Di certo si fonda su un’ordinanza precedente a sua volta fondata su fatti erronei. Si continua a non dire nulla sull’espulsione definitiva di Stefano De Luca, che non l’ha mai impugnata. E nel frattempo c’è stato il congresso del 2022 che mi ha eletto segretario. È un’ordinanza profondamente ingiusta, contro la quale eserciterò da libero cittadino tutte le azioni possibili».
Quindi farete ricorso?
«L’assurdità è che trattandosi di un’ordinanza cautelare emessa in sede di reclamo non è impugnabile. Quindi dobbiamo attendere l’esito del giudizio di merito o nel frattempo proporre altre azioni».
Di quando parliamo?
«L’udienza è a dicembre».
Cinque mesi.
«Sempre che a dicembre si vada a decisione».
Si sente in freezer o in panchina?
«Diciamo in panchina. Anche perché c’è un intero partito che ci riconosce una legittimazione di fatto: in sala c’erano centinaia di delegati e rappresentanze di liberali di tutta Italia. Perciò, anche per continuare ad avere agibilità politica, abbiamo deciso di formare il Comitato 4 Luglio per la riunificazione dei liberali, e mi fa piacere sottolineare che alla fondazione ha partecipato anche la compagine dei Liberali Sardi Autonomisti (Lisa), il nuovo movimento politico liberale coordinato da Carlo Murru nato in seno al partito liberale per dare un apporto modernista, autonomo e riformista alla politica sarda. Ci siamo dati il compito di unire tutte le sigle liberali: associazioni, movimenti e partiti».
Però il presidente Pasquali dice che il Pli per lui è un’esperienza conclusa.
«Capisco lo stato d’animo. Penso intenda dire che, si chiami o meno Pli, quel che conta sono le persone che si riconoscono nella proposta. Questo Pli è lo stesso di trent’anni fa? Quello guidato da De Luca e ridotto ai minimi termini, che ha messo alla porta persone come Capezzone, Diaconale, Sgarbi? A questo punto chiamarci Pli o Italia Libera o Italia liberale non mi sembra che faccia grande differenza».
Non sarà che ormai il liberalismo è di tutti, e la vostra funzione è compiuta?
«Sono convinto del contrario: l’Italia è uno Stato sostanzialmente socialista, che controlla ogni angolo dell’economia e costringe chi vuole fare impresa a scontrarsi con una pressione fiscale devastante, una burocrazia asfissiante, un interventismo statale in ogni singolo mercato e bonus a pioggia per qualunque cosa. Non è liberale uno Stato che toglie a chi produce per dare a chi non produce: è uno Stato centrale che manovra tutto. Con le Regioni che spendono fuori da ogni controllo perché i politici regionali spendono soldi altrui».
Primo caso di socialismo reale messo in piedi dalla Dc: in Italia la sinistra ha governato poco e mai da sola.
«Il problema non è solo politico: è la diffusione di una cultura che è effettivamente di socialismo strisciante. Pensiamo al M5S: se dici alla gente che ha diritto a un reddito solo in virtù della cittadinanza, allora siamo al comunismo puro. Perciò il lavoro che serve prima che politico è culturale, come quello fatto da Milei che in Argentina ha ridotto a un decimo un’inflazione mostruosa, e nell’ultimo anno ha fatto crescere l’economia come in nessun altro Paese».
Parliamo di un chirurgo che opera senza anestesia.
«In Argentina non c’era il tempo per praticarla, il paziente stava morendo. In Italia c’è».
A parte Milei e Thatcher, al “congresso-non congresso” lei ha citato con stima Renzi: nel Pd avevano ragione a trovarlo di destra.
«Renzi non è di destra né di sinistra: è un riformista che è stato espulso dal sistema che voleva riformare. La sinistra ha cacciato la parte che l’avrebbe trasformata in una forza moderna e così, tra il populismo di Conte e l’incapacità di Schlein di vedere i problemi del Paese, ci ritroviamo con una sinistra tassa & spendi. Sono novecenteschi».
Non è che Malagodi sia un tiktoker.
«Certo. Ma se uno diceva cose giuste negli anni Sessanta e i fatti gli hanno dato ragione, a cominciare dall’esplosione della spesa pubblica, vale la pena di seguirlo anche oggi. Poi sì, anche noi ci siamo evoluti».
Insieme i liberali non riescono neanche a prendere un caffè: perché può unirli lei?
«Perché non ho ambizioni personali, vivo del mio lavoro, faccio politica per passione e sarei ben disponibile a farmi da parte appena si individuasse una guida capace di portare in alto i nostri valori».
Si offre come mediatore.
«Senza protagonismi, basta che l’Oscar lo vinca il film».
Che ci faceva un liberale a 24 carati come lei in prima fila alla presentazione cagliaritana del libro di Vannacci?
«Bisogna ascoltare tutti e comprendere tutti, potrei seguire in prima fila anche un discorso di Conte senza condividere una parola. E poi Vannacci ha visioni che in certi casi sono distanti dalle nostre e in altri casi lo sono meno. Per esempio ha una visione critica dell’Europa: noi siamo europeisti convinti, ma siamo per un’Europa che rappresenti i popoli senza essere ostaggio dei singoli Stati, e non soffra del centralismo che affligge l’Italia».
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