«Siamo l’unico presidio che non chiude mai, bisogna riconoscere il sacrificio di chi lavora nell’emergenza-urgenza»

Pronto soccorso, la rabbia dei direttori: «Il sistema non regge» 

Lettera alle Asl e all’assessore: non ci stiamo a fare da bersaglio  

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Facili (e spesso incolpevoli) bersagli per colpa di «un sistema ospedaliero che non funziona più». I direttori dei pronto soccorso della Sardegna dicono basta. Alle critiche, alle strumentalizzazioni, agli attacchi. Loro - e chi lavora nei loro reparti - che si trovano spesso sotto accusa per le attese dei pazienti, per i mancati ricoveri e, alla fine, per le sofferenze di troppo di chi si rivolge agli ospedali e non trova risposte adeguate.

La lettera

In una lunga lettera-sfogo inviata ai commissari delle Aziende sanitarie e all’assessore alla Sanità Armando Bartolazzi, i dirigenti di altrettante strutture di emergenza urgenza dell’Isola dicono la loro. Sono Anna Laura Alimonda (Santissima Trinità), Giovanni Sechi (Ospedale Civile di Alghero), Wolfgang Orecchioni (Aou Cagliari), Luca Pilo (Ozieri), Michela Matta (San Francesco di Nuoro), Priscilla Ongetta (San Martino di Oristano), Nicola Tondini (Paolo Dettori di Tempio), Stefano Sau (Direttore sanitario di Areus), Paolo Pinna Parpaglia (Santissima Annunziata, Sassari), Pietro Fortuna (Paolo Merlo, La Maddalena).

La vicenda

Prendono spunto da una vicenda: quella di un’anziana morta a Carbonia dopo 12 giorni trascorsi al pronto soccorso del Sirai a causa di una frattura al femore. Qualcuno aveva gridato allo scandalo, ma sono stati gli stessi parenti a difendere l’operato di medici, infermieri e Oss che si sono presi cura della donna – affetta da plurime patologie – nel migliore dei modi possibili. Il personale però, intanto, era finito nel tritacarne, con la direttrice in testa: «Fin da subito vogliamo ribadire che la difesa della collega è la difesa di tutti noi», scrivono i medici. Al suo posto ci sarebbe potuto essere ognuno di loro: «Chi opera quotidianamente nei reparti dell’emergenza», scrivono, «riconosce in questa vicenda se stesso, le proprie difficoltà e il proprio senso di responsabilità». La rabbia aumenta perché «ancora una volta, si assiste allo sdegno improvviso e tardivo di chi, pur conoscendo perfettamente le criticità del sistema, sceglie di puntare il dito contro l’unico presidio che non chiude mai: il pronto soccorso».

Sistema in crisi

I direttori ricordano che proprio quel reparto «rappresenta la porta d’ingresso dell’intero sistema sanitario, ma non ne è il punto di arrivo. I tempi di attesa, i ritardi nei ricoveri e le difficoltà di gestione dei pazienti non sono il frutto dell’inefficienza dei professionisti che ci operano, bensì l’effetto di una rete ospedaliera in sofferenza, dove i presidi periferici sono costretti quotidianamente a confrontarsi» con un’enormità di disfunzioni. Tra queste: l’assenza, o quasi, di reparti specialistici; la cronica carenza di posti letto nei presidi Hub; la mancata applicazione delle normative regionali che impongono ai centri di riferimento di accogliere i pazienti provenienti dagli Spoke periferici. In questo contesto «ogni trasferimento diventa una battaglia quotidiana, ogni ricovero un negoziato, ogni decisione clinica un atto di responsabilità che si compie spesso in solitudine, tra urgenze simultanee e risorse ridotte all’essenziale». A tutto questo si aggiunge una piaga che da anni affligge il sistema sanitario: il boarding, «ovvero la permanenza prolungata in pronto soccorso di pazienti già valutati e in attesa di ricovero. Un fenomeno tanto frequente quanto inaccettabile, che trasforma i pronto soccorso in reparti di degenza forzata». È, secondo chi sta in prima linea, «il sintomo di un sistema che non riesce più a garantire il proprio flusso di presa in carico, e che scarica sul pronto soccorso l’intera disfunzione organizzativa dell’assistenza ospedaliera».

Soluzioni

Medici e operatori continuano a metterci tutto quello che possono. Ma nella lettera avvisano: se davvero si vuole cambiare qualcosa «si inizi ad applicare con rigore le regole esistenti, a far rispettare le reti Hub&Spoke, e a riconoscere il valore e il sacrificio di chi lavora nei pronto soccorso. Il caso di Carbonia non è un’eccezione: è la fotografia quotidiana di una realtà che tutti conoscono, ma pochi hanno il coraggio di denunciare».

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