Allarme carceri

Da Cutolo a Turatello, i boss che segnarono la città 

Dalla rivolta a Badu ‘e Carros all’uccisione di “Faccia d’angelo”. Il monito dei magistrati di allora 

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A Badu ‘e Carros sono passati nomi di primo piano della criminalità organizzata, fin dagli anni Ottanta, quando Nuoro divenne sinonimo di “supercarcere” e luogo dove i boss portavano avanti le loro vendette, tra rivolte e uccisioni di detenuti. Da Vallanzasca (leader della mala milanese) a Cutolo (signore della Nuova camorra organizzata) fino a Luciano Liggio (capo dei corleonesi), tanti sono i detenuti “eccellenti” che hanno vissuto nelle celle di Nuoro, lasciando anche segni evidenti del loro passaggio, pur senza mai riuscire a evadere come invece ha fatto due anni fa Marco Raduano, pugliese, oggi collaboratore di giustizia dopo la cattura avvenuta in Corsica. Alla fine degli anni Settanta, in piena guerra tra Stato e terrorismo, fu il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa a far passare l’idea di utilizzare gli istituti sardi, dall’Asinara a Badu ‘e Carros, per i detenuti più pericolosi, dai brigatisti appunto fino ai mafiosi. Per oltre un decennio, tra la fine degli anni Settanta e gli Ottanta, Nuoro ha vissuto tutto questo con il sistema dei trasferimenti e dei circuiti speciali.

Le rivolte e l’allarme

Il punto di svolta ha una data: 27 ottobre 1980. In quel giorno, come ricordano le cronache dell’Unione Sarda, ci fu la grande rivolta a Badu ‘e Carros, uno degli episodi più gravi della storia penitenziaria italiana di quegli anni. Le sezioni furono devastate, l’intervento delle forze dell’ordine fu massiccio, l’eco nazionale. Nel corso di quei fatti rimasero sul terreno due detenuti: Biagio Iaquinta, 34 anni di Cosenza, e Francesco Zarrillo, 28 di Caserta. «Quest’ultimo era un avversario di Cutolo, che cercava in tutti i modi di farlo fuori», ricorda Angelo Altea, ex deputato, allora cronista dell’Unione Sarda. «La banda di Cutolo voleva ucciderlo, tanto che tentarono anche con una dose di veleno, fatta arrivare dentro il carcere da una donna nuorese, con cui venne condito del cibo inviato da Pasquale Barra, altro detenuto di primo piano, a Zarrillo. Lui, sospettoso, non lo assaggiò neanche. Così si arrivò alla rivolta e alla sua uccisione, insieme a Biagio Iaquinta, assassinato perché considerato una “bestia” – ricorda ancora Altea – aveva accoltellato, uccidendola, una donna in cinta quasi al nono mese, moglie di un carabiniere».

Per Nuoro fu uno shock. Il carcere, fino ad allora percepito come distante, entrò improvvisamente nella vita quotidiana della città. «Si aspettava la radio, i giornali, come se potesse succedere qualcosa anche fuori», è il ricordo di chi visse la città allora.

La striscia di sangue

Anche perché quell’episodio non fu l’unico. Il 17 agosto 1981 a Badu ’e Carros venne ucciso Francis “Faccia d’Angelo” Turatello, uno dei boss più noti della criminalità milanese, nemico di Renato Vallanzasca e inviso a Luciano Liggio perché ostacolava l’ascesa dei giovani corleonesi, tra cui anche i vari Riina e Provenzano (la cui ascesa si scontrava con la resistenza delle famiglie palermitane Bontate, Inzerillo e Badalamenti), a Milano, dove volevano controllare la piazza. A onor del vero, nelle carte processuali, si parlò di un accordo tra Raffaele Cutolo e Angelo Epaminonda, detto “Il Tebano”, sempre per la spartizione della piazza di Milano. L’omicidio avvenne durante l’ora d’aria: per quei fatti furono condannati alcuni detenuti legati alla camorra, tra cui Pasquale Barra, Vincenzo Andraous, Antonino Faro e Salvatore Maltese. Fu un fatto efferato. A Turatello venne strappato il cuore, mangiato da alcuni dei suoi assassini.

Non fu solo un fatto di cronaca nera. Fu la conferma che a Nuoro erano stati concentrati detenuti di primissimo piano, protagonisti di guerre criminali. Da quel momento Badu ’e Carros divenne il carcere dei peggiori.

La città invasa

Il clima che si creò nel capoluogo barbaricino era pesante. «A iniziare dal fatto che, in seguito alla scoperta di un piano per far evadere i brigatisti rossi, con l’utilizzo di un elicottero da rubare nella base di Farcana per poi prelevare i terroristi nel piazzale del carcere, venne deciso di sistemare una rete sopra il penitenziario e mettere in campo un blindato delle forze dell’ordine che girava 24 ore su 24 intorno a Badu ‘e Carros», ricorda ancora Altea. Non fu solo questo. Proprio in quegli anni si scoprì un legame tra gli uomini di Liggio e alcune attività imprenditoriali del Nuorese. «Si seppe – aggiunge Altea – che Liggio aveva salvato un artigiano dal fallimento con la promessa che potesse accoglierlo nella sua azienda in caso di concessione di benefici al boss».

Certamente, Nuoro non ha mai scelto di convivere con i boss. È stata scelta. Ha ospitato uno dei carceri simbolo dell’emergenza nazionale, ha assorbito paura e silenzio, ha garantito servizi e lavoro. E in quella convivenza forzata ha pagato un prezzo: essere ricordata, per anni, più per ciò che custodiva che per ciò che era. Chi, tra i magistrati di allora, intuì evidentemente da subito quali rischi si correvano fu l’allora procuratore della Repubblica di Nuoro, Francesco Marcello, che parlò sulla stampa di «braciere perennemente acceso», mentre il presidente della Corte d’appello Salvatore Buffoni, in carica sempre in quegli anni, definì Badu ‘e Carros, un «focolaio di violenza che rischia di incendiare la Barbagia». Peraltro, le infiltrazioni sono state accertate da evidenze processuali anche in altre zone della Sardegna, per esempio nel caso di Gaetano Iannì, boss degli “stiddari” di Agrigento e Caltanisetta, inviato al confino nel Sulcis, dove fece crescere aggregazioni criminali sarde nel Sud dell’Isola.

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