Il pedagogista Daniele Novara sarà protagonista di un incontro dedicato all’educazione e alla gestione dei conflitti familiari, con la presentazione del suo libro “Mollami! Educare i figli adolescenti e trovare la giusta distanza per farli crescere”.
L’appuntamento è in programma mercoledì 22 ottobre alle 20.15 al Teatro di Sant’Eulalia, nell’ambito del Love Sharing Festival.
Attraverso esempi concreti e strumenti di comunicazione nonviolenta, Novara invita genitori e insegnanti a costruire relazioni fondate sull’ascolto, sull’autonomia e sulla fiducia reciproca.

Nel suo libro “Mollami!” il tema centrale è la giusta distanza tra genitori e figli adolescenti. Qual è oggi, secondo lei, l’errore più comune che i genitori commettono nel rapporto con i propri figli in questa fase così delicata?
Stiamo parlando di adolescenti, cioè di ragazzi e ragazze che vogliono allontanarsi dal nido materno e dal controllo infantile per vivere la propria libertà. I genitori, però, fanno fatica a comprendere questo passaggio tra infanzia e nuova fase della vita, e cercano di mantenere quell’intimità e quella vicinanza di prima, vedendoli ancora come bambini. In questo modo inseguono una gradevolezza che non appartiene più ai figli, ormai entrati in una fase completamente diversa.
Quando si cerca qualcosa che non può più esserci, si innescano difficoltà e conflitti: i figli alzano l’asticella dell’opposizione e i contrasti diventano inevitabili. Sarebbero però molto più gestibili se mamme e papà capissero che l’adolescenza ha bisogni totalmente diversi rispetto all’infanzia.

Il titolo del libro è provocatorio. Cosa c’è dietro quel “Mollami”? È un grido di ribellione o una richiesta di fiducia da parte dei ragazzi?
“Mollami” è una classica espressione degli adolescenti nei confronti dei genitori. Non è solo una parola, ma un segnale comunicativo: esprime il bisogno di allontanarsi per ritrovare sé stessi, di prendere le distanze per potersi costruire. Fa parte di quel repertorio di frasi tipiche – “siete i peggiori genitori del mondo”, “quando avrò 18 anni me ne vado”, “se continuate così vi denuncio” – che, se lette con intelligenza, non devono spaventare. Sono modi per difendere la propria autonomia.
I genitori non devono prenderle alla lettera, ma nemmeno abbandonare il campo: a questa età i figli non vanno lasciati soli, né controllati come bambini. Vanno accompagnati, con un atteggiamento educativo che rispetti la loro esigenza di indipendenza.

Lei insiste molto sulla gestione dei conflitti come occasione educativa. Come possiamo aiutare i genitori e gli insegnanti a non aver paura del conflitto, ma a viverlo come parte naturale della crescita?
Anzitutto, il conflitto non è la guerra. Oggi, purtroppo, il termine viene spesso usato come sinonimo di violenza, ma il suo significato reale è “divergenza”, “contrarietà”, specialmente sul piano relazionale.
La fragilità del genitore contemporaneo, immerso in un’epoca narcisistica, sta proprio qui: nel non saper reggere la naturale oppositività dei figli, che invece è un segno sano di autonomia e indipendenza. Nel mio libro spiego come accogliere questa opposizione, riconoscendola come parte del processo di crescita, non come una minaccia.

L’adolescenza è anche il tempo del distacco e dell’autonomia. In che modo gli adulti possono imparare a “lasciare andare” senza sentirsi rifiutati?
Nel libro presento varie tecniche nate dal mio trentennale lavoro con genitori e insegnanti. Una delle più efficaci è quella del “paletto”: stabilire un limite entro il quale l’adolescente può esercitare la propria libertà.
Può essere un limite d’orario, di denaro (la classica paghetta) o di utilizzo dello smartphone, soprattutto la notte, perché influisce negativamente sul sonno e sull’equilibrio. Sono modalità “paterne”, imprescindibili in questa fase della vita. A quest’età, prediche e insistenze non servono più: serve invece un’organizzazione educativa chiara, coerente e condivisa.

Il Love Sharing Festival unisce pedagogia, ecologia e cultura della pace. Quanto è importante oggi educare alla nonviolenza non solo nelle famiglie, ma anche come valore sociale e comunitario?
Io tengo sempre con me una foto di Gandhi e la sua biografia. Ho basato le mie scelte professionali su un’ispirazione gandhiana: coerenza tra mezzi e fini.
Come direbbe la Montessori, “il metodo è tutto”: prima dei contenuti, conta il modo in cui interagiamo. Urlare a un figlio di “stare buono” è una contraddizione, così come lo era, un tempo, picchiare un bambino per insegnargli a non picchiare.
Anche in ambito educativo ho cercato di mantenere questa coerenza: non a caso ho scritto libri come “Urlare non serve a nulla” e “Punire non serve a nulla”. La nonviolenza è, prima di tutto, un metodo educativo basato sulla comunicazione e sull’ascolto reciproco.

Quindi è sempre una questione di metodo?
Esattamente. Il metodo che ho ideato per gestire i litigi tra bambini, “Litigare bene”, parte proprio da qui: non costruire colpevoli, ma garantire uno spazio di confronto, in cui i due antagonisti possano raccontarsi e ascoltarsi. Comunicare è la base della nonviolenza: significa gestire il conflitto in modo costruttivo, trasformandolo in apprendimento.

Nel suo percorso di pedagogista ha incontrato migliaia di famiglie. C’è un episodio o un consiglio che le ha insegnato più di tutti cosa significa davvero educare?
Il mio obiettivo è sempre stato quello di aiutare una persona a tirare fuori le proprie risorse. Per i bambini questo significa imparare a fare da soli, a esplorare, a vivere la libertà.
Quando questo non accade, si creano blocchi che oggi spesso vengono etichettati come “disturbi”, ma che sono, in realtà, semplici difficoltà educative. Una parte importante del mio lavoro, anche insieme a Marta Versiglia, è stata proprio aiutare i genitori a capire che dietro un’etichetta diagnostica può esserci solo un inceppamento nella crescita.
Vedere quei bambini – e poi quei ragazzi – ritrovare il proprio equilibrio e la loro normalità è una delle mie più grandi emozioni. L’educazione, in fondo, è questo: imparare a guardare sempre il bicchiere mezzo pieno, non quello mezzo vuoto.

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