Come va?

«Sempre negativo. Oggi va di moda rispondere così».

Gian Luigi Gessa è nell’ufficio arroventato da un condizionatore che alita aria bollente, al secondo piano del Dipartimento di Scienze biomediche di Monserrato. Mercoledì il farmacologo-psichiatra dei due mondi – ha lavorato negli Stati Uniti e in Italia – festeggerà novant’anni pubblicando uno studio su Frontiers in neuroscience, l’ennesimo di una carriera costellata di successi e riconoscimenti: «Nella mia professione è un metodo preciso per valutare se quello che fai ha un senso, se il tuo lavoro è utile».

Il papà dei topi bevitori, vessillo di una comunità scientifica che ha prosperato in Italia e nel mondo, mescola ricordi, giudizi taglienti e progetti per il futuro: «L’unico modo per non invecchiare è innamorarsi. Io amo la ricerca, quindi resto giovane».

Quando iniziò l’avventura nella farmacologia?

«Nel 1956, giovane laureando andai a chiedere la tesi nel palazzo degli istituti biologici di via Porcell numero 4, una strada importante di Cagliari dedicata a un oscuro anatomico di Barcellona mentre lo scienziato Bernardo Loddo è confinato in uno slargo anonimo poco distante».

A chi presentò la richiesta?

«Al professor William Ferrari, modenese con una voce da Vasco Rossi. Era agosto, mi accolse in zoccoli, camice e sotto – si diceva – niente. Fu disponibile: “La tesi gliela do, e la invito a cena con il coniglio al curaro”, uno di quelli usati in laboratorio. Ero perplesso, lo intuì: “Che razza di farmacologo sei? L’intestino del coniglio non assorbe il curaro, non c’è alcun rischio”. Nell’ampia terrazza da una parte coltivavano l’oppio, dall’altro c’era il recinto dei cani presi dal canile municipale. Li studiai anch’io per la mia tesi di laurea dal titolo: “L’ipofisi influenza direttamente il cervello?”»

Il rapporto con gli animalisti?

«Uno dei loro slogan mi regalava il ruolo da protagonista: “Fuori gli animali dagli stabulari, dentro Gessa e i suoi sicari”. Li invitai in laboratorio, in quel periodo studiavamo le reazioni agli stimoli sessuali. Uno di loro mi disse: “Qui gli animali vivono a una temperatura ideale, si accoppiano quando vogliono. Stanno meglio di tante persone”».

Il trasferimento negli Stati Uniti?

«Nel 1960. Ero destinato a rimanere un anno, ma mi trattennero più a lungo. Lavoravo con Bernard Brodie, uno dei padri della farmacologia moderna e direttore del Laboratory of chemical pharmacology del National institutes health, il tempio della ricerca americana».

Quanto tempo ha trascorso negli Usa?

«Cinque anni e mezzo a Bethesda, nel Maryland, un anno e mezzo a San Diego. La prima esperienza da giovane, l’altra a 68 anni».

Pentito di essere tornato a Cagliari?

«C’è un clima umano straordinario e tante difficoltà a trovare i soldi per la ricerca».

Il parco tecnologico di Pula è una promessa non mantenuta?

«È stata commessa l’ingenuità di pensare che bastasse un posto magnifico per attirare la gente. Hanno scelto anche un premio Nobel, Carlo Rubbia, che veniva ogni due mesi a prendere lo stipendio. Si è pensato che il Nobel fosse contagioso, così non è stato. Per funzionare deve essere integrato nell’università, come la Silicon Valley».

Come si arriva a 90 anni con la passione intatta per il lavoro?

«Il nostro mestiere è l’unico al mondo in cui puoi dire “meno male è lunedì”. Ho un lavoro in pubblicazione, un altro pubblicato quest’anno con la collega Paola Devoto, che è andata in pensione ed è tornata a lavorare gratuitamente. Anche lei è appassionata».

Si impone regole ferree, per esempio nell’alimentazione?

«Sorrido quando teorizzano la carica salvifica del formaggio o del vino dei centenari. Sono morigerato, ormai in tutti sensi. Non vado più neanche in windsurf. Mi è rimasta la passione per le neuroscienze».

Errori?

«A volte non ho saputo giudicare l’onestà intellettuale delle persone».

Delusioni dai suoi allievi?

«Sono entusiasta di tutti, tranne uno».

Chi è?

«Nessuno di importante».

Pentito di essersi candidato al Consiglio regionale?

«Sono stato presidente della commissione Cultura: abbiamo forgiato tre leggi – una sul cinema, una sulla ricerca scientifica, un’altra sul teatro – che mi fanno dire di aver fatto il mio dovere anche se ho tradito per cinque anni il mio vero amore».

In cosa crede?

«Credo che gli uomini sopravvivano nel ricordo degli altri. Alcuni restano millenni, altri scompaiono in un istante».

Non c’è nulla oltre la vita?

«L’uomo ha tre istinti principali: mangiare, procreare e sconfiggere chi ce l’ha con lui, prima tra tutti la morte. Per questo costruisce il paradiso e l’idea di vita eterna».

Lei ha detto che il sesso è una droga: fa male?

«Tanti lo vivono serenamente, altri diventano schiavi del porno sex, soprattutto adolescenti e preadolescenti che hanno gli organi sessuali maturi ma sono acerbi nella corteccia prefrontale, quella in cui risiede l’anima: basta un clic online per avere un’infinità di donne, una varietà devastante. Cercano uno stimolo maggiore, una trasgressione crescente, fino a diventarne schiavi».

Cosa pensa delle lezioni a distanza nella scuola e nell’università?

«Sono convinto che l’insegnamento portato avanti in questo modo sia sterile. Non mi sarei innamorato di alcuni “grandi” se non li avessi incontrati. Sì, anche io ho tenuto alcune lezioni a distanza e mi sono vergognato. Non sono contro la tecnologia, però bisogna fare dei distinguo su come si utilizza».

I giovani non hanno voglia di lavorare?

«Scriveva Gramsci: “Ogni ghianda può pensare di diventare quercia, ma nella realtà il 999 per mille delle ghiande servono di pasto ai maiali”. La Sardegna ha un tasso elevatissimo di dispersione scolastica, scarse opportunità di crescita: quanti Mozart moriranno senza aver mai incontrato un pianoforte?»

Il Covid è il frutto di un incidente nel laboratorio di Wuhan?

«La giudico un’ipotesi da viromante. Di sicuro la pandemia è una manna per l’industria farmaceutica che può sfornare vaccini à la carte».

Prova nostalgia?

«È un bel sentimento, legato a tracce di vita gradevoli. Le donne che ricordo, per esempio, sono le più belle possibili, nel periodo di massimo splendore. Sì, la nostalgia a giuste dosi è un aspetto piacevole della vita».

Paolo Paolini

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