F orse è successo anche a qualcun altro, e non solo a chi firma queste righe, di non ricordare con precisione un aneddoto raccontato a suo tempo da una persona cara che non c’è più, o da un conoscente che sarebbe laborioso rintracciare, e pensare per un istante di andare a cercare quel racconto su YouTube. Come si potrebbe fare con una vecchia intervista, o con uno spezzone di un varietà televisivo anni Ottanta. O magari – è un’esperienza ancora più deprimente, ma anche più frequente – di non trovare un oggetto qualunque (un libro, un mazzo di chiavi, un cappello) e per un momento pensare di “farlo squillare”.

È arrivata la primavera, quella vera, e un pizzico di ottimismo è consentito: forse significa che siamo davvero una generazione di mezzo fra analogico e digitale, e questa nostra confusione in qualche modo è preziosa. Perché non sappiamo granché del nuovo rispetto ai nativi, ma ricordiamo il vecchio. O meglio: l’antico. E quindi valiamo molto. I manoscritti rispetto alle prime pubblicazioni a stampa erano meravigliosamente belli, e la memoria di chi è vissuto di tradizione orale era sontuosa ed enciclopedica. Noi siamo leggenda, in qualche senso (per chi ha visto il film o almeno sa di che tratta).

O forse siamo solo stressati. Perché in effetti se pensi di far squillare un mazzo di chiavi non sei messo benissimo.

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