U n linguista rigoroso, che si compiace della sua intransigenza, mi ha illuminato il cono d’ombra in cui, per pigra assuefazione, ero caduto. L’occasione è stata una considerazione da me fatta sulla guerriglia urbana di questi giorni in alcune città italiane. Attacchi violenti alle forze dell’ordine, distruzione di beni pubblici, poliziotti aggrediti e feriti, bombe carta, molotov, sassaiole, assalti incendiari. Un clima sovversivo tollerato dalle parti politiche d’opposizione al governo, alle quali conviene pescare nel torbido. Una sommossa che alcuni organi d’informazione stanno subdolamente fiancheggiando con cavillosi incroci tra libertà e democrazia. I protagonisti della rivolta appartengono per lo più ai centri sociali e fomentano la ribellione di immigrati clandestini, bonariamente detti irregolari, che con azioni violente sfogano vendette e rancore. Il loro scopo è la sovversione, che con la democrazia nulla condivide. Mentre io irrido questa contraddizione il mio interlocutore mi fa notare che sia ai rivoltosi sia ai loro sostenitori occulti e palesi interessa soltanto il secondo elemento di questa parola: la crazia, che il vocabolario Treccani definisce «potere, dominio, esercizio del potere». Da parte del popolo, certo. Ma non del popolo che vota e accetta le regole. Il popolo, secondo loro, è soltanto quello dell’assalto al Palazzo d’inverno.

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