C ’era una volta un paese in cui la felicità era d’obbligo. Soltanto i matti si dichiaravano non felici. Perciò venivano chiusi in manicomio. Per varcare la frontiera, chiamata dagli infelici Cortina di ferro, bisognava essere ideologicamente vaccinati. Con il linguaggio attuale possiamo dire che per espatriare occorreva un “pass”. Da due giorni anche in Italia ha corso legale un “pass”. Consente di varcare piccoli confini interni: ristoranti, teatri, stadi, luoghi di lavoro; e i confini nazionali. Chi non ce l’ha, perché non vaccinato, considera liberticida il governo che lo impone. Nelle piazze mediatiche imperversano dibattiti surreali che, estremizzando, si possono così sintetizzare: «Come tu sei libero di vaccinarti io sono libero di contagiarti». Le valenze scientifiche non contano, la disputa sul vaccino è ideologica, assomiglia a un test filosofico. I “No green pass” sono una minoranza consistente di persone che, talvolta con violenza, protestano in piazza. Mentre invocano diritti rivendicano, con un ossimoro concettuale, la libertà di nuocere. Non siamo in Urss, urlano. C’è un insano livore in coloro che equiparano il green pass al passaporto sovietico. Ricorrono a un linguaggio violento, a parole estreme. Leonardo Sciascia direbbe che sono «parole piene di vento». Vento virale.

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