S e tre anni fa ci avessero predetto la guerra russa all’Ucraina l’avremmo immaginata molto meno novecentesca di così, molto meno fitta di espressioni come truppe fresche, controffensiva, campi minati e altra roba da sussidiari. Però avremmo immaginato un ruolo più incisivo non tanto dell’informatica in genere (quello c’è, basta pensare ai droni) quanto dei gruppi hacker. Quando scattò l’invasione Anonymous minacciò direttamente Putin, e in tanti ci fregammo le mani. L’idea che ci fosse un alleato in più contro quell’invasione oscena era galvanizzante. E poi le istanze libertarie di quegli smanettoni interpellano la parte più scapestrata di molti di noi, ed era bello che in campo contro lo zar feroce ci fossero anche loro. Faceva molto, come dire, romanzo di Stefano Benni a lieto fine.

Pregustavamo l’azzeramento dei conti di Putin e le corazzate russe mandate a sbattere l’una sull’altra, o almeno un incasinamento dei dispacci che rifornisse le prime linee russe di paperelle di gomma e di pitali. Senonché un anno e mezzo dopo non pare si sia andati oltre i proclami, e accanto alla delusione resta un dubbio. Perché quando i cyberanarchici colpiscono davvero il cosiddetto potere ne scelgono sempre uno democraticamente eletto in posti dove, fra mille problemi, resistono uno straccio di democrazia e una certa libertà di stampa?

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