D omenica mattina sul Terrapieno, passeggiata primaverile fuori stagione. Passa in piena chiacchiera smartfonica un allegro signore paffuto e si lascia dietro una tale sberla di profumo –roba orientaleggiante e alcolica – che pure il cane smette di fiutare le tracce lasciate su un’aiuola da qualche suo collega e rimane col tartufo fremente a mezz’aria, le orecchie sgranate e la coda veloce tipo “ma stai scherzando?” (in realtà è più un “ma schtai schkerzando?”. Sa essere un cane piuttosto pop, a volte). E lì bisognerebbe conoscere le parole o gli ululati per spiegargli: è dopobarba. Tu esisti da pochi anni ma un tempo se ne sentiva molto di più. Ce n’erano tanti: per l’uomo che non deve chiedere mai, per quello che deve chiedere spesso, per quello che pure se chiede è lo stesso. E per quello che si chiede che cosa chiedere. Un po’ perché adesso un filo di barba è un accessorio e non più un’ombra losca sul viso, o perché ora chi si rade poi la pelle deve idratarla, mica disinfettarla: di fatto il dopobarba si incontra sempre meno. Prima quando ti si avvicinava un collega per bisbigliarti una confidenza sentivi prima la fragranza, poi le parole. Ora no, anche perché casomai ti manda un whatsapp. Non è un dramma, è solo un tassello che sbiadisce e si va staccando dal mosaico della nostra quotidianità sensoriale. Però notarlo una bella mattina di domenica colpisce.

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