U n dettaglio microscopico in una storia tragica. Ieri, in morte del generale Graziano, il vicepremier Tajani lo ha salutato sui social scrivendo che “era un amico ed è stato uno straordinario ufficiale”.

Tralasciamo la premessa contraddittoria, quando Tajani parla di una scomparsa che “lascia senza parole” per poi trovarne altre 31: la banalità di un modo di dire usurato può far inciampare anche un vicepremier. Invece merita un po’ di attenzione in più la formula “era un amico”. Vorrà dire “era un mio amico” oppure, meno egocentricamente, “eravamo amici”. Però scrivere che “era un amico” tout court, senza aggettivo possessivo, lascia una sensazione bizzarra. E cioè che “amico” sia una qualifica come “geometra”, “prete”, “europeo”. Se non specifico che era un amico mio, con questa formula in teoria lascio intendere che era amico di tutti, anche di chi non lo conosceva. Ontologicamente amico, come si può essere totalmente preti, profondamente europei.

Ma ripensando alle altre volte in cui abbiamo sentito questa definizione, ai contesti in cui si usano espressioni come “Rivolgiti a Tizio, è un amico”, diventa chiaro che non significa “un amico mio” né “un amico di tutti”. Significa “un amico nostro”. Uno che per un determinato ambiente, per un gruppo, per una certa cerchia ci sarà sempre.

Un soldato merita un necrologio migliore.

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