A volte combiniamo dei pasticci lessicali così assurdi che possono nascere solo dalla malafede. Per esempio quando parliamo di estrazione dalle cave usiamo il verbo coltivare, come se il granito fosse roba che se la innaffi ricresce, e le distese di torri eoliche che ronzano sui monti le chiamiamo parchi, come le zone che manteniamo integre e selvagge per rispetto verso la natura. Invece biblioteche, archivi e musei per un'antica colpa di Gianni De Michelis li definiamo giacimenti culturali.

Questo approccio texano, quest'idea minerale di un sapere che non va curato né accresciuto ma estratto e consumato finché ce n'è, forse ha contribuito al disastro che nei giorni scorsi Tomaso Montanari ha descritto sul Fatto. Archivi pubblici al collasso, personale in estinzione, la direttrice Annamaria Buzzi che avverte il Consiglio Superiore dei Beni Culturali: «Siamo allo stremo, non sappiamo fino a che punto potremo reggere».

Magari sarebbe diverso se li avessimo chiamati orti, cioè posti che meritano cura e fatica e in cambio danno nutrimento. Orti culturali. Oppure potremmo usare nomi antichi e potenti - “biblioteche”, “archivi”, “musei” - e imparare a rispettarli. Perché ci sopravviveranno, e diranno ai nuovi che gente eravamo.

CELESTINO TABASSO
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