C osì la foresta non foltissima del giornalismo sardo ha perso un'altra quercia. Come si conviene agli alberi maestosi Piero Mannironi è caduto di schianto, e l'eco si propaga dal suo giornale al nostro. Rimbomba nelle redazioni semivuote e nei tinelli dei cronisti in smart working.

Ma chi per lodarlo fruga tra gli aggettivi di gala li trova tutti già usati, spesso a sproposito. Certo che Piero era buono, lo era di quella bontà sorprendente che talora hanno i nuoresi. E capace, tenace, rigoroso. Nulla di mai detto, certo, ma lui lo era davvero. Poi però fra gli aggettivi consumati per raccontare la nostra informazione ecco un sostantivo. Spavento. E non solo per la sua fine improvvisa: al di là dei lutti, oggi chi informa ha spesso paura. Teme la crisi che azzanna le testate, un potere politico che non è asfissiante solo in Ungheria, un'opinione pubblica che si va mutando in una massa e intanto manda giù fake news, forti e gratis come le prime dosi dei pusher.

La scomparsa di una persona degna concede l'unico insopportabile risarcimento del suo esempio. Quello di Piero è il disprezzo per la paura e per la sua gemella borghese, la noia. Non si era scelto il tempo che abitava, ma aveva scelto di raccontarlo bene e a testa alta, sulla Nuova Sardegna e fuori.

Il nostro omaggio si chiami coraggio.

CELESTINO TABASSO
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