In Israele si torna a votare per le elezioni politiche.

Le ultime si sono svolte pochi mesi fa, in aprile, ma il risultato finale non ha permesso la costruzione di un governo solido: il Likud, partito di destra nazionalista di Benjamin Netanyahu, e la nuova formazione Blu e Bianco, centrista frutto della alleanza tra l’ex capo di stato maggiore Benny Gantz e l’ex giornalista televisivo Yair Lapid, hanno ottenuto entrambe 35 parlamentari.

Netanyahu ha provato a formare un governo ma dopo aver avuto solo una maggioranza di 61 parlamentari su 120 ha dovuto cedere per i contrasti interni alla sua coalizione (contrasti fra i partiti religiosi e Yisrael Beitenu, partito nazionalista anticlericale che chiede che anche gli ultraortodossi facciano il servizio militare dal quale sono ancora di fatto esclusi).

Il sistema elettorale israeliano è un proporzionale puro con soglia di sbarramento al 3,25%, ragione per cui vi è una estrema frammentazione del voto; spesso si è reso necessario creare coalizioni anche molto variegate al loro interno.

È stata la prima volta nella storia israeliana che un candidato alla carica di primo ministro non è riuscito a formare una coalizione dopo essere stato incaricato dal presidente dopo le elezioni; pur di non dare la possibilità a Benny Gantz di provare a costituire un governo alternativo, la Knesset ha votato una legge per il proprio scioglimento (anche questa una novità nella politica israeliana).

Netanyahu ha ruoli di leadership nel Likud dal 1993: dopo la prima esperienza come primo ministro dal 1996 al 1999 e vari incarichi governativi dal 2002, ha ininterrottamente vinto le elezioni dal 2009, ricoprendo per 10 anni consecutivi l‘incarico di premier. Nel corso dei suoi mandati, i partiti di sinistra hanno visto affievolirsi sempre più la rispettiva quota di seggi (ad aprile il vecchio partito Laburista aveva solo 6 seggi, Meretz -socialdemocratico- 4), mentre gli avversari di centro quali Tzipi Livni o Yair Lapid si sono ritirati o hanno dovuto scendere a compromessi con altri partiti per poter competere contro il Likud.

Oggi però appare in difficoltà (anche perché in questo momento ha tre processi intentati contro di lui) e i suoi continui rilanci (sull'annessione della Cisgiordania o su una ulteriore guerra a Gaza) appaiono più provocazioni elettorali per assicurarsi i voti della estrema destra che concrete proposte politiche.

Al netto dei rapporti con la Palestina, che rimangono comunque uno dei temi della campagna (benché sullo sfondo), Israele vive una situazione interna decisamente contraddittoria: ha una economia con andamento positivo, che cresce almeno al 3% da anni, un basso tasso di disoccupazione (poco più del 4%) e alcune eccellenze mondiali nel campo della ricerca e della tecnologia. Contestualmente vi è però un vertiginoso aumento del costo della vita, un grave deficit del bilancio statale, il divario tra ricchi e poveri in Israele è tra i più ampi fra i paesi dell’Ocse, il numero di persone che vivono al di sotto della soglia di povertà è in crescita ed esiste una radicale divisione della società tra laici e religiosi.

L’espansione liberista portata avanti dal Likud non è dunque riuscita a coniugare successo economico con benessere generalizzato. Finora Netanyahu ha continuato a raccogliere consenso grazie a tassi positivi e all’idea che riusciva a proiettare di se stesso, ossia di un leader vincente: le elezioni diranno se questa immagine ha ancora presa sull’elettorato o se Israele ha deciso di cambiare leadership e politiche.

Filippo Petrucci
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