Nel cinquantenario del '68 abbiamo raccolto la serie di interviste "Diamo l'assalto al cielo": ricordi del Sessantotto in Sardegna, per fare un salto all'indietro nel tempo attraverso le voci di alcune personalità sarde allora ventenni, che, in luoghi e modi diversi, presero parte al movimento studentesco, tra sogni, impegno, ideali e un pizzico di autocritica.

Il primo ricordo è quello di Luciano Marrocu, nativo di Guspini, classe 1948, docente alla Sapienza di Roma e oggi all'ateneo di Cagliari, lo stesso dove 50 anni fa ha vissuto da protagonista la stagione sessantottina. Alla docenza ha affiancato la pubblicazione di saggi sulla storia del sindacato, del Partito Laburista britannico, della società sarda tra '800 e '900, del ventennio fascista e una biografia di George Orwell.

Un ventenne appena iscritto all'Università che si ritrova nel mezzo del terremoto sessantottino: come ricorda quell'anno?

"La prima immagine che mi torna alla mente è quella dell'atrio della facoltà di Lettere e Filosofia a Cagliari, lo scenario del mio '68 dove peraltro torno ogni giorno come docente da più di vent'anni. Lì iniziò tutto, assemblee, comizi e perfino un assalto dei fascisti durante il quale presi un colpo di catena sulla testa. Mi ero iscritto nel novembre del '67 e poi era scoppiato a livello nazionale il fenomeno del Sessantotto, così mi sono ritrovato immerso in quel clima, dove tutto avveniva secondo un meccanismo imitativo, come un sasso lanciato in uno stagno che propaga onde: accadeva qualcosa da qualche parte e la notizia bastava a scatenare episodi simili altrove".

"Onda", "vento" e persino "terremoto", sono i termini utilizzati per descrivere un fenomeno che aveva come comune denominatore il fattore generazionale: da cosa partiva la voglia di cambiamento?

"Lascio ad altre sedi l'analisi storica dell'epoca e mi limito a una testimonianza puramente personale, e per rendere l'idea di cosa fu quella forza trascinante, racconto un aneddoto divertente che mi capitò proprio nei primi giorni di università. Io ero un ragazzo come tanti, interessato alla letteratura più che alla politica, e comunque di tendenze moderate, da liberale di sinistra. Beh, bastò una chiacchierata di qualche ora con uno studente più anziano, già molto attivo e iscritto al Pci, per uscirne marxista... Da lì il passo alle riunioni nella mitica aula 7 e poi in aula magna, dove si alternavano leader del movimento locali come Pietro Clemente, o personaggi che venivano da fuori, come Rossana Rossanda".

Come reagì la società, le altre generazioni, le vostre famiglie alla contestazione?

"Vengo da una famiglia borghese, mio padre è stato insegnante e poi preside di un liceo, e il mio retaggio familiare, sociale e culturale era profondamente 'urbano', slegato dai temi per così dire sardi, dell'autonomismo e dell'indipendentismo, sebbene i miei non fossero nativi di Cagliari. Tutto sommato il loro atteggiamento fu quello tipico che hanno i genitori davanti alle piccole e grandi rivoluzioni dei figli: 'stai attento e continua a studiare'. Un misto di simpatia e preoccupazione, insomma. Mi salvò il fatto che come molti altri amici ero uno studente inappuntabile, tanto che poi il percorso accademico e la docenza mi sono sembrati uno sbocco naturale".

Come molti altri ex sessantottini da oppositori del sistema accademico ne siete diventati parte integrante: non c'è incoerenza?

"È una critica che torna spesso, ma la nostra lotta di allora non era rivolta solo contro l'autoritarismo dei docenti, parte dei quali peraltro era progressista e con noi instaurò una sorta di alleanza, ad esempio sul tema delle occupazioni. La nostra ribellione era più profonda, di tipo culturale, contro metodi e programmi didattici antiquati e immobili. E questo in un momento storico nel quale l'ateneo di Cagliari e la facoltà di Lettere stava diventando una delle più importanti facoltà umanistiche a livello nazionale e internazionale, con un corpo docenti di grande prestigio. Dal mio punto di vista la continuità tra l'attivismo del '68 e la carriera accademica era un percorso naturale, che non faceva in alcun modo perdere la propria identità politica".

Ripensando con distanza del tempo e senso critico a quel periodo, quali sono gli aspetti più nobili e i peggiori limiti?

"Citando il detto 'A me m'ha rovinato la guerra', potrei dire ironicamente 'A me m'ha rovinato il 68'. Mi ero formato secondo principi di sinistra moderati, giocavo a pallone, volevo scrivere romanzi e nel giro di pochi anni sono diventato un bieco marxista. Naturalmente è una battuta, ma rende l'idea. In positivo posso dire che quell'esperienza di presenza e impegno civile ci ha cambiato un po' tutti ed eravamo davvero tanti, i figli del boom del dopoguerra. Il fatto poi che avessimo 20 anni ci ha segnato ancora di più".

Una manifestazione studentesca nel 1968
Una manifestazione studentesca nel 1968
Una manifestazione studentesca nel 1968

Poi però c'è stata una deriva meno solare, quella del terrorismo.

"Sì, nella sua fase finale il movimento studentesco ha prodotto anche alcuni gruppi extraparlamentari violenti. Un'evoluzione negativa, non c'è dubbio, che può capitare quando si coltiva costantemente un linguaggio di lotta, che anche nelle sue forme più nobili può produrre il culto della violenza. Dopo la prima fase, il grande entusiasmo si è spento, forse perché i troppi ideologismi ci hanno tenuti lontani dalla realtà e dalla società che ci stavano attorno".

E le istanze femministe che si sarebbero sviluppate più tardi, che terreno trovavano nella Sardegna di fine anni '60?

"Ho visto crescere allora le femministe più capaci, nascere iniziative bellissime come la 'Libreria delle donne' e posso dire che il mio '68 è stato illuminato da compagne di grande talento, ma confesso che proprio mentre occupavano insieme le università, anche le ragazze più brillanti e intelligenti rimanevano relegate a ruoli minori, i famosi ‘angeli del ciclostile’ che stampavano volantini o preparavano i panini. L'emancipazione femminile non era estranea ai nostri pensieri, ma non era certo in testa alla lista".

Però le battaglie di allora hanno liberato i rapporti tra uomo e donna da rigidità e tabù.

"Certo , va detto però che i tempi erano già maturi, aspettavano solo il 'la' e in questo senso la stagione del '68 non fu una rivoluzionaria novità. Per quanto mi riguarda, ad esempio, già ai tempi del liceo trascorrevo l'estate in Inghilterra presso alcune famiglie con il fine di imparare la lingua: di inglese ne parlai ben poco, ma servì a guardarmi intorno, vedere il mondo, smaliziarmi. Anche a Cagliari l'atmosfera di quando frequentavo il liceo Dettori era già pre '68 e il fenomeno non era solo cittadino, perché nei paesi i giovani ascoltavano la nostra stessa musica... Insomma la società sarda di allora era tutt'altro che immobile, molto più dinamica di quanto non sia oggi, forse perché gli anni '60 sono stati straordinari dappertutto".

Dalla contestazione negli atenei alle mobilitazioni in Barbagia, le rivolte di Orgosolo e Pratobello: c'è un legame?

"Ricordo un lungo viaggio fino a Orgosolo sulla 2 Cavalli di un amico torinese fatto proprio nell'estate delle mobilitazioni, ma io mi sentivo un semplice turista. Sul terreno dell'analisi effettivamente a Orgosolo si respirava l'aria migliore del Sessantotto e dei movimenti, quella capace di influenzare la gente, di far confluire le battaglie studentesche con quelle della società civile. Devo dire che l'immagine che conservo di Orgosolo in quell'anno è mille volte più avanti di quella di oggi".

Se dovesse in pochi tratti cosa è stato il '68 a un ventenne di oggi...

"Direi che è stato un movimento collettivo di giovani, fatto di partecipazione, del valore dell'impegno civile e di senso d'appartenenza a una comunità, a cui si chiedeva e si dava il meglio di sé. È stato tutto questo, non disgiunto, almeno nella prima fase, da un gran divertimento".

E da docente che quotidianamente si confronta con i giovani di oggi, crede che potrebbero ripetere l'esperienza?

"Sperimento da insegnante che ci sono studenti bravi e seri, ma l'atrio della facoltà è sempre vuoto o con gente che parla d'altro, non c'è quel contesto di relazioni, non si sentono appartenenti a una comunità e quindi discutono poco. Non mi interrompono nemmeno quando faccio lezione...".

Barbara Miccolupi

(Unioneonline)
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