S ono passate sotto un preoccupante silenzio le considerazioni sulla giustizia espresse negli ultimi tempi da Piercamillo Davigo, presidente di sezione della Corte di cassazione e consigliere del Csm. Eppure sono macigni lanciati contro le regole cardinali di ogni processo e contro il buon senso. Ma non c'è da meravigliarsi per le sue uscite.

D avigo si era fatto già notare per altre infelici frasi, come quella per cui gli imputati assolti non sono innocenti, ma «colpevoli sfuggiti alla giustizia», per cui gli unici errori giudiziari sarebbero le assoluzioni, confermando così che, per lui, la verità la accertano i pubblici ministeri nelle indagini, non i giudici in un regolare processo.

L'altro giorno invece Davigo se l'è presa con i politici, dicendo che «non si dimette mai nessuno per la notizia di essere indagato. L'errore italiano è sempre stato quello di dire: aspettiamo le sentenze. I politici restano sempre al loro posto fino a che arrivano i carabinieri». Basterebbe questa affermazione per comprendere qual è il modo di ragionare di Davigo. Dunque, non si deve aspettare la sentenza? Ci si deve obbligatoriamente dimettere appena un P.M. inizia le indagini per accertare se un reato è stato commesso? Non possiamo lasciare la decisione di dimettersi alla sensibilità e al senso di responsabilità di ciascun inquisito? È tutta qui la concezione che Davigo ha del processo: le indagini contano più della sentenza. Per lui la verità sta nell'ipotesi accusatoria, anche se ancora da dimostrare con le prove da assumere in contraddittorio nel processo. La presunzione di innocenza non esiste: la condanna, mediatica e politica, deve scattare sulla base degli indizi emersi dalle indagini. Eppure le statistiche ci dicono che buona parte delle indagini si chiudono con l'archiviazione e quelle che approdano al dibattimento si concludono per circa il 20-22% con l'assoluzione, che talvolta arriva anche in appello. E i casi clamorosi non mancano: basta pensare, tra i più noti, alle dimissioni di Mastella da ministro del governo Prodi, perché indagato e poi assolto dopo nove anni o al ministro Lupi, dimessosi dal Governo Renzi e poi archiviato.

È perciò scandaloso che un magistrato, che per una vita ha fatto il P.M. e oggi presiede una sezione della corte di cassazione ma continuando a ragionare da P.M., esalti la sua concezione del processo che è l'anticamera della giustizia a furor di popolo: secoli di civiltà giuridica dimenticati, il ritorno al processo del sospetto, il rovescio dello Stato di diritto. Dovrebbero essere i giudici i primi a sentirsi mortificati da una simile ideologia del processo, che fa apparire inutili e tardive le loro sentenze.

Non si tratta perciò di essere garantisti o giustizialisti, perché le garanzie stanno scritte nella Costituzione, quanto di voler rispettare o meno la Costituzione. E poi, come insegna Robespierre, il giustizialismo non ha mai portato bene ai suoi fautori, destinati anche loro ad essere vittime del loro stesso furore.

LEONARDO FILIPPI

UNIVERSITÀ DI CAGLIARI
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