C i sono vicende sarde alle quali è difficile dare una spiegazione, problematiche che ci trasciniamo da decenni, persino ardue da raccontare. Ad esempio, se un domani i nostri figli ci chiedessero come è possibile che in Sardegna non esista un sistema di trasporti efficiente, che siamo costretti a subìre i ricatti delle compagnie e sostenere prezzi alle stelle, soprattutto d'estate, cosa dovremmo rispondere? Potremmo forse cavarcela col tormentone della continuità territoriale negata, puntare il dito sull'Italia matrigna. Ma alla fine saremo costretti ad ammettere che la nostra classe politica non è riuscita a farsi rispettare, ad ottenere ciò che in altre regioni e altre nazioni è un diritto acquisito. Guardando i ragazzi negli occhi, dovremo raccontare la verità: abbiamo fallito.

Lo stesso sapore di amara beffa s'inizia a sentirlo per l'annosa questione della metanizzazione nell'Isola. Più passa il tempo e più aumentano i dubbi sul fatto che il progetto possa arrivare finalmente a compimento.

Breve riassunto. Accantonata l'ipotesi del Galsi, il gasdotto marino che avrebbe dovuto portare il gas algerino nell'Italia continentale attraverso la Sardegna, si è puntato giustamente sul collegamento al Piano energetico nazionale e ad una dorsale che trasportasse il metano dal sud al nord dell'Isola. È un tipo di energia pulita, sfruttata ovunque nelle altre regioni, con notevoli risparmi per i cittadini ed evidenti vantaggi per le attività produttive.

S uperate non poche resistenze, anche grazie alla spinta dell'Accordo di Parigi sul clima che impone la dismissione del carbone entro il 2025, i concessionari dei bacini hanno investito 240 milioni e sono iniziati i lavori per un piano che - tra bacini e metanodotto - vale circa tre miliardi e mezzo. La Regione Sardegna ci ha messo un po' troppo a sposare la causa mentre i sindacati si sono subito mostrati favorevoli, anche perché è un'occasione di lavoro per tante piccole imprese isolane. A livello romano, nell'ambito del piano energetico nazionale, gli ostacoli non sono mancati. Solo alcuni mesi fa il premier Conte affermava di prediligere l'ipotesi di un elettrodotto fra Campania, Sicilia e Sardegna (mai progettato).

Si è comunque andati avanti - a fatica - fino a che non è saltato fuori il problema delle tariffe. E qui è entrata in gioco l'Arera (acronimo di Autorità di regolazione per energia, reti e ambiente), una di quelle strutture che in teoria dovrebbe garantire l'ottimale funzionamento del libero mercato dell'energia e che invece - almeno per noi sardi - rischia d'essere un ente vessatore che ci costringe al Medioevo energetico. Già nell'ottobre scorso i signori dell'Arera avevano ipotizzato per la Sardegna un ambito unico. Significa che l'Isola non avrebbe, come previsto nell'accordo Stato-Regione, tariffe uguali o simili a quelle del resto della penisola ma bensì maggiorate. Quando ci siamo svegliati e abbiamo protestato, facendo notare che negli anni noi sardi ci siamo fatti carico nelle bollette energetiche dei costi della metanizzazione in tutta Italia, l'Arera (il 27 dicembre scorso) ha respinto le critiche al mittente, confermando per la Sardegna un ambito tariffario a sé. L'Autorità non riconosce «giustificata la diffusione generalizzata del servizio che comporterebbe aggravi nel costo del soddisfacimento dei bisogni energetici del Paese». In poche parole: il vostro metano ci costa troppo, arrangiatevi. All'Arera non importa che viviamo in un'isola, che abbiamo deficit strutturali, ignora che il Patto per la Sardegna prevede l'adozione di meccanismi di compensazione. L'Arera, sprezzante, riconduce tutto a «obiettivi di efficienza allocativa» e precisa di avere «la facoltà e non l'obbligo di introdurre appositi strumenti di perequazione».

Tutto ciò che l'Arera sembrerebbe disposta a concedere è «un periodo transitorio di 3 anni» per una specifica componente tariffaria riferita alla Sardegna, che non sarà comunque nemmeno allineata a quelle dell'ambito meridionale, come in subordine era stato chiesto. All'atto pratico non siamo meridionali, non siamo italiani, siamo solo isolani “sardignoli”: e alla nostra insularità quasi si irride. Ora, si spera vivamente che la Regione sbatta i pugni sul tavolo e tiri fuori un po' d'orgoglio e determinazione. Ma questa vicenda dimostra - plasticamente - come abbiano ragione la professoressa Mongiu e quei cittadini sardi di buona volontà che si battono per l'inserimento del principio di insularità in Costituzione. Fino a che quell'obiettivo non sarà raggiunto resteremo vassalli, italiani di serie B che chiunque si sentirà in diritto di calpestare. Ribelliamoci ora. Perché dopo saremmo anche noi complici di questo sfascio.

MASSIMO CRIVELLI
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