Tutti sanno che i voti universitari si esprimono in trentesimi. Se diciotto è il minimo necessario a superare un esame, trenta e lode è il massimo conseguibile: l'apoteosi.

Cinquanta e più anni fa, i docenti incaricati di valutare gli studenti erano tre: e ciascuno di loro poteva assegnare un voto da uno a dieci.

10+10+10 fa trenta. 6+6+6 fa diciotto: insomma, una sufficienza striminzita che, infatti, si può rifiutare.

Eppure, il voto più insopportabile, quello destinato a suscitare profonda insoddisfazione, è sempre stato il ventinove: una specie di “dieci meno”, per intenderci.

A Cagliari, alla fine degli anni Novanta, c'era uno studente di Filosofia che di ventinove ne collezionava parecchi. Studiava, studiava e studiava ancora. Il giorno dell'esame, poi, si presentava all'università puntuale: per scaramanzia faceva una carezza alla statua di Giordano Bruno, affrontava con batticuore la lunga fila regolata dall'appello e, giunto il suo turno, rispondeva esaurientemente a tutte le domande che gli venivano poste.

Seguiva poi l'inesorabile rito del voto: il ragazzo porgeva speranzoso il suo libretto azzurro, il professore guardava la lunga sfilza di ventinove già stilata in precedenza e sentenziava: «Non posso che essere d'accordo con i miei colleghi e confermare la loro valutazione».

«Ma come? Un altro ventinove? Sembra una maledizione!».

«Vede, lei ha uno strano modo di esporre ciò che sa. È un po' troppo sicuro di sé: e pare che stia insegnando, anziché sostenere un esame...»

E così, il ragazzo ritornava a casa di malumore.

Chi, senza dare nell'occhio, riferiva esattamente parola per parola prendeva trenta. Il suo stile singolare, invece, non veniva percepito come un punto di forza da incoraggiare: ma come un'imperfezione. Un'anomalia che era necessario correggere con una piccola punizione.
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