Di cover è piena la storia della musica. Curiosamente, molte sono più famose dell'originale. Anzi, spesso il successo della copia ha relegato nell'oblio l'originale e i veri autori, coloro che dopo notti insonni e giornate di lavoro su spartiti e strumenti hanno composto brani che per mille ragioni non sono riusciti a sfondare nel mercato e nel cuore degli ascoltatori.

Uno dei casi più clamorosi e citati è Hallelujah, capolavoro di Leonard Cohen reso famoso Jeff Buckley, grazie al quale anche l'opera dell'artista canadese ebbe la possibilità di essere rivalutata. Eppure, come riferì una volta all'amico Bob Dylan, Cohen aveva impiegato oltre quattro anni a comporre il pezzo, che in origine era composto da 80 strofe, poi ridotte a sei nella versione definitiva da circa quattro minuti e mezzo.

Persino la pubblicazione del brano, avvenuta nel 1984 nell'album Various positions, ebbe un percorso accidentato giacché i discografici della Columbia (poi Sony) non erano convinti della qualità del pezzo. E infatti l'album che la conteneva ebbe un minimo successo ma il pezzo passò praticamente inosservato. Eppure era una composizione magnetica, mistica, con un testo affascinante. Infatti nel '91 se ne impossessò John Cale che ne incise una versione spettrale, perfetta per il film Basquiat.

Ma il riconoscimento internazionale arrivò solo dieci anni dopo nella reinterpretazione di Buckley, più lunga di due minuti, inserita nell'album Grace che conteneva, oltre a sette inediti, altre due cover: Lilac Wine di Nina Simone e Corpus Christi Carol di Benjamin Britten.

Time ne esaltò "l'eccellente interpretazione", molti musicisti famosi, tra cui lo stesso Dylan e Jimmy Page, chitarrista dei Led Zeppelin, usarono parole entusiastiche, Rolling stone inserì il pezzo nella "500 greatest song of all times", i premi furono numerosi, le vendite eccellenti. Paradossalmente quel successo riportò in auge anche la versione di Cohen, non meno intensa e struggente, consegnando il brano alla storia, e generando una serie infinita di versioni, l'ultima delle quali portata nei live da Ed Sheeran.

Una storia simile è accaduta a Tainted Love, diventata uno dei brani-simbolo del sinth-pop anni '80 grazie alla versione dei Soft cell. Eppure il pezzo fu scritto dalla soul singer Gloria Jones che lo registrò per la prima volta nel 1964 e lo ripropose dodici anni dopo in versione glam rock assieme a Marc Bolan. Tainted love uscì nel 1981 e diventò il brano iconico dei Soft cell. Tanto che sulla scia di quel successo è stato coverizzato circa 40 volte da gruppi e cantanti di diversissima estrazione tra cui gli Scorpions, Billy Idol, le Pussycat dolls e Marilyn Manson. Anche in questo caso la fortuna commerciale della cover ha giovato all'autrice, non solo perché ha potuto riproporre la sua creatura nei palchi di mezzo mondo ma soprattutto grazie ai cospicui diritti d'autore.

Nel pianeta sconfinato delle riproduzioni musicali un posto di rilievo lo occupa anche I will always love you conosciuta nel mondo soprattutto nella versione di Whitney Houston del '92 che vendette oltre 16 milioni di copie anche grazie al successo al botteghino di The bodyguard, il film con la stessa Houston e Kevin Kostner di cui era parte della colonna sonora. A differenza dei due brani precedenti, tuttavia, anche la versione originale del '74 di Dolly Parton arrivò ai vertici delle classifiche di vendita. Non solo, fece parte di due film: Alice non abita più qui di Martin Scorsese e, dopo una reincisione di The Best Little Whorehouse in Texas di Colin Higgins, pellicola nella quale recitava la stessa Parton insieme a Burt Reynolds.

E che dire di Twist and shout. Portata al successo dai Beatles, che nel 1964 la inserirono nel loro album di esordio Please me, please me, in realtà era stata incisa per due volte nel '61: la prima dai "Top notes", gruppo vocale di scarso successo, poi dagli Isley Brothers, che la portarono al diciassettesimo posto della classifica statunitense. A scriverla e a produrla per la prima volta furono Phil Spector, artista eclettico che anni dopo collaborò con i "Fab four" per il loro ultimo disco, Let it be, e Bert Russel.

Curioso il fatto che mentre sulla prima versione del '61 ci fu un lungo lavoro di gestazione e persino una competizione tra due autori (Russel volle dimostrare a Spector, riuscendoci, che la versione degli Isley Brother avrebbe surclassato quella dei Top notes), quella dei Beatles fu registrata in un solo "take" alla fine di una lunga sessione in sala d'incisione e con Lennon ormai senza voce. Fu proprio quello il segreto del successo.
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