Non starò a spiegare per filo e per segno le conseguenze del potenziale voto referendario di domenica 12 giugno consapevole del fatto che, con buona verosimiglianza, la silenziosa e sottile contrapposizione ideologica sul tema tra pretesi “garantisti” e approssimativi “giustizialisti” potrebbe rappresentare l’elemento di distorsione del sistema idoneo a comprometterne il successo anche solo in termini percentualistici.

Intendiamoci: “nulla quaestio” sul ricorso al “referendum” quale massima espressione di “democrazia diretta”, di partecipazione del popolo alla decisione su temi fondamentali anche di carattere squisitamente giuridico. Ma quando quel meccanismo paia essere divenuto, nel contesto del sentire comune, mera espressione di un preciso indirizzo politico, lontano dalla quotidianità della gente comune, in forza di quale valido ed efficace motto ispiratore la popolazione può fattivamente sentirsi coinvolta dagli esiti del voto medesimo?

Quei quesiti referendari sono davvero idonei a contribuire al miglioramento della gestione dell’impianto penalistico “latu sensu” considerato?

Diciamocela tutta: quello di domenica sembra rappresentare, invero, un voto alla rituale contrapposizione tra le massime classi dirigenti del Paese, funzionalmente accorpate dal Governo dei (pretesi) Migliori (pescati probabilmente dalle “riserve” di partito per offrire una parvenza di novità) quale espressione vivida e sinceramente davvero poco convinta e altrettanto poco convincente della più aspra contrapposizione tra coloro che vivono e interpretano il ruolo della magistratura nella sua funzione “docimologico-moralizzante” e coloro che, invece, sono portati a considerarne unicamente il profilo “inquisitorio”. Il tutto, nel contesto di un portato motivazionale assai stringente e patologico, in cui l’estremizzazione polarizzante delle due contrapposte ideologie disfunzionali per definizione, quella “moralizzatrice” e quella “inquisitoria”, finisce inevitabilmente per vanificare e logorare non solo i termini del dibattito, oramai pervasi da solo sterile tecnicismo para-giuridico, ma anche il livello di sopportazione dei soggetti chiamati ad esprimere il loro “sì” oppure il loro “no” proprio nel momento in cui, appiattiti e avviliti a cagione delle contingenze storiche tanto pandemiche quanto belliche, vorrebbero discutere di ben altro per vedere migliorare la propria personale gestione del quotidiano e delle sue evenienze.

Ciò che è certo, al di là e oltre il tempismo intempestivo della consultazione referendaria, è che dal prossimo lunedì ci ritroveremo, ancora una volta, con un “nulla di fatto”, con l’ennesimo fallimento della classe dirigente del Paese da sempre impegnata a cercare di salvare se stessa a discapito del bene comune, a discapito cioè di quella cittadinanza che, al contrario, dovrebbe rappresentare il fine ultimo dell’agire politico da troppi anni dimenticato.

Come può lo Stato, “rectius”, l’attuale esecutivo arcobaleno, anche solo pensare di mettere mano alla riforma della giustizia se, paradossalmente, “chi” (la valenza è chiaramente di carattere oggettivo-generico) dovrebbe riformarla (lo Stato) è di per sé stesso responsabile delle disfunzioni cristallizzatesi nel tempo? Insomma: chi dovrebbe controllare l’operato del controllore? Il controllore stesso? La giustizia può mai essere concepita come una mera appendice della democrazia ad uso e consumo della politica e dei suoi meccanismi?

La stessa modalità di proposizione dei quesiti referendari e quindi la corretta percezione dei loro contenuti sono davvero idonei a consentire alla gente comune, afflitta dalle necessità contingenti, di coglierne il senso per esprimersi senza incertezze per il “sì” o per il “no”?

Le risposte, come sempre, sono direttamente conseguenti. Intanto perché, di sicuro, riforma o non riforma (e quella Cartabia fa acqua da tutte le parti), nessuno di noi, io credo, vuole rinunciare al modello del giusto processo accusatorio garantito dall’articolo 111 della Costituzione, probabilmente rimasto inattuato, in molti casi, per degenerazione strumentale soggettiva  (la responsabilità è sempre personale dei soggetti non delle norme esistenti), e nessuno di noi, io credo parimenti, può mai condividere un approccio  individualistico (strumentale agli interessi dei partiti di volta in volta interessati si intenda) rispetto a tematiche di interesse generale.

Quindi perché, a voler essere sinceri, la stessa lettura dei quesiti referendari, e quello sulla separazione delle carriere dei magistrati (ossia di quelli con funzioni requirenti e di quelli con funzioni giudicanti) appare massimamente indicativo in tutta la sua complessità siccome condizionato dalla mescolanza, più o meno voluta, tra la artificiosità della materia e la natura abrogativa del referendum, ha dato vita all’apprezzamento di un testo non solo lungo e farraginoso, ma addirittura incomprensibile per tutti coloro che tecnici della materia non sono, e che pertanto difettano, loro malgrado, delle conoscenze specialistiche utili a consentire l’espressione consapevole del voto: ammesso e non concesso, che una volta compreso il significato, lo sentano davvero come dirimente.

Infine perché, verosimilmente, l’esito della consultazione finirà per essere gestito sul piano mediatico in maniera suggestiva e pericolosamente “ritorsiva” rispetto alle aspettative dei promotori, percepiti, parrebbe, come “soggetti” “direttamente interessati” agli esiti della consultazione.

Insomma, questo referendum, a conti fatti, e stante il tempismo drammaticamente intempestivo della sua proposizione, sarà l’ennesima mortificazione dei meccanismi di democrazia diretta siccome incapace di riflettere nel confronto pubblico, o che perlomeno tale dovrebbe essere, significativi elementi di verità accompagnati dal necessario razionalismo giuridico utile a fungere non solo da meccanismo di collegamento tra la enunciazione futura della norma relativa scaturente dall’esito della votazione, e i suoi riflessi sulla corretta amministrazione della giustizia, ma anche ad evitare che tutto resti travolto dalla sterile propaganda populista di quanti, per partito preso, siano portati a fare di “tutta un’erba un fascio” senza considerare che la degenerazione acclarata dal Caso Palamara, invero, concerne i cosiddetti “piani alti” portatori di “interessi personalistici” che nulla hanno a che vedere con l’amministrazione quotidiana della giustizia.

A prescindere da quello che sarà l’esito della consultazione referendaria, ammesso che si raggiunga il quorum necessario richiesto, la vera “rivoluzione” da attendersi è che finalmente si riesca a ristabilire un vero equilibrio fiduciario tra i tre massimi poteri dello Stato nella consapevolezza che per aversi veramente una “giustizia” davvero “giusta” ciascuno dei soggetti chiamati ad amministrarla (tanto sul piano politico quanto su quello giuridico-amministrativo) dovrebbe limitarsi ad assolvere esclusivamente al mandato ricevuto imponendosi un regime di non ingerenza su quello altrui. Fermo restando che la degenerazione soggettiva di certuni costituisce l’imponderabile mistificazione dell’agire individuale e mai l’esito della formulazione più o meno stringente di una norma. 

Giuseppina Di Salvatore

(Avvocato – Nuoro)

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