Ma il “potere” è “maschio” o è “femmina”? Oppure è solo e semplicemente potere variamente interpretato quando al maschile e quando al femminile? L’interrogativo è chiaramente provocatorio e, probabilmente, pure tristemente ironico, ma le varie e “scadenti” (per molti versi) diatribe linguistico-espressive della settimana appena trascorsa costringono ad una riflessione che si propone di andare oltre lo sterile alterco linguistico venutosi a generare tra chi parrebbe definirsi e vorrebbe credersi di “destra” e quanti desidererebbero riconoscersi, per converso, quali militanti passionari di “sinistra”. Distinguendosi gli uni dagli altri, i primi dai secondi, solamente in funzione della scelta tra una “o” e una “a” nella declinazione di una tra le cariche più ambite del nostro governo.

Un modo come un altro, insomma, evidentemente gradito ad una narrazione politica non più tale nelle sue connotazioni qualificanti, per “discutere del sesso degli angeli” attraverso i meccanismi della “reductio ad absurdum”.

Se queste sono le premesse qualificanti dell’azione di governo, allora dovremo rassegnarci fin d’ora a sentir dare importanza a questioni marginali o irrilevanti a tutto discapito di quelle assai più serie presenti al momento e che necessitano di interventi risolutivi immediati.

Sciolto ogni dubbio sul fatto che “la (signora) Presidente del Consiglio dei Ministri” resta la migliore espressione con cui definire Giorgia Meloni, ossia la prima donna (piaccia o non piaccia) chiamata a guidare il governo in Italia, è tempo di finirla: non si può pretendere di ridurre sempre tutto ad una questione di “genere” solo per sottolineare una differente visione dei processi politici in atto.

È arrivato il momento di abbandonare, facendosene una ragione sacrosanta, ogni inutile, quanto fortemente dannoso, “forestierismo” ed accettare felicemente un processo storico oramai ben avviato.

Nulla quaestio, poi, sulla circostanza per cui taluno intenda preferire la forma tradizionale maschile, avendo ben diritto di farlo: Giorgio Napolitano, uomo notoriamente di sinistra, aveva preferito “chiamare” Laura Boldrini semplicemente “il Presidente della Camera” a significare, per l’appunto, l’insignificanza di ogni discussione sul punto, tendenziosa per vizio di origine e per nulla significativa sul piano delle relazioni politiche. La scelta tra l’una o l’altra forma, in buona sostanza, è frutto di una pura e semplice preferenza linguistica dettata dall’appartenenza anagrafica ad una certa generazione ovvero ad una consapevole scelta ideologica che sarebbe, come di fatto è, alquanto ridicolo porre sotto accusa.

Intendiamoci, e per farla davvero brevissima: “dum ea romani parant consultantque, iam Saguntum summa vi oppugnabatur” (traducendo l’espressione latina: “mentre i Romani si attardavano in preparativi e consultazioni, già Sagunto era presa d’assalto con grandissima violenza”). Chi volesse intendere, intenda. Perché se anche una irrilevante discussione espressiva si connotasse, come purtroppo puntualmente avvenuto, per essere assunta a paradigma di governo, allora dovremmo gioco forza essere indotti a credere che il percorso prossimo venturo dell’esecutivo neo-nato potrebbe restarne condizionato in maniera oltremodo rovinosa per la sua potenziale attitudine a tradurre ogni eventuale emergenzialità alla stregua di un ideologismo spicciolo incapace di riflettersi in azione concreta. L’impressione che se ne ritrae è che ancora oggi, probabilmente a livello inconscio, non si sia riusciti ad andare metaforicamente oltre il binomio “predominio/sottomissione”, impedendo ai più maliziosi di ragionare nei termini, che sarebbero invece corretti, di una affermata condizione di uguaglianza esplicantesi nella gestione di un potere orizzontalmente diffuso quale alternativa, anche politica e sociale, desiderabile allorquando fosse rettamente e funzionalmente intesa.

Se nel lontano Ottocento, insomma, le donne avevano “le chiavi del cuore e della dispensa”, oggi, “mutatis mutandis”, quelle stesse donne, “detengono pure le chiavi della stanza dei bottoni” avendo definitivamente superato le barriere sociali, economiche, politiche e culturali facendo unicamente affidamento sulle proprie risorse.

L’esigenza spasmodica di taluna parte della “sinistra” di ribadire continuamente la inferiorità, vera o presunta, privata e pubblica delle donne, l’esigenza di doverne sottolineare l’obbligo (se ancora esistente) quasi di obbedienza alla verticalità del dominio maschile, finisce per tradursi nell’incapacità di accettare una oramai intervenuta trasformazione, forse ancora non pienamente compiuta, ma sicuramente ben avviata, all’interno della quale, la “disobbedienza” nei confronti di una pretesa superiorità maschile rappresenta solamente una esperienza lontana nel tempo e nello spazio quanto meno nell’esperienza sociale del nostro comunque problematico Occidente. Lo stesso ordinamento costituzionale garantisce, al genere sotto-rappresentato, una protezione peculiare per quanto siano da “aborrire” le cosiddette “quote di genere” e i meccanismi della “doppia preferenza” in quanto tali considerati al di là ed oltre, molto spesso, di ogni questione legata al merito per assorbire, quasi in modo tristemente riduzionistico, il tema ben più rilevante di esplicazione dei principi di “democrazia paritaria”. Per dirla diversamente, il vero problema, emerso ancora una volta tra le righe di una discussione linguistica di scarsissimo pregio a cui purtroppo la stessa Giorgia Meloni ha voluto (credo inconsapevolmente) dare seguito, è che ancora adesso il tema pregnante della parità di genere si ritrova ad essere confinato tra  “tecnicismi” giuridici e ordinamentali che inducono a trascurarne la dimensione ontologica utile a definirne i contorni sistematici significativi idonei a riflettersi in azioni conseguenti. Si ha come l’impressione che il “femminile” nel contesto politico del nostro sistema di governo sia passato dalla dimensione del “conflitto” a quello del puro e semplice “contenzioso”, e che all’autenticità di ogni principio di uguaglianza si sia voluto sostituire solo un criterio quantitativo (le quote) diretto a ridurre il tutto, e la sua pregnanza, ad un mero fatto numerico difficilmente decifrabile sul piano sostanziale. Diversamente, insomma, da quanto vorrebbe farsi credere, le donne nel contesto politico, qualunque cosa se ne voglia dire, lungi dall’essere scarsamente rappresentate, sono piuttosto, scarsamente qualificanti per non essere quasi mai chiamate a rivestire ruoli chiave all’interno del loro schieramento di appartenenza.

Giorgia Meloni rappresenta senza dubbio una felice eccezione, ma non significa affatto che la sua “posizione apicale” dipenda dalle sue maggiori capacità sapientemente espresse rispetto a quelle di altre donne della stessa destra o di sinistra rimaste nell’ombra. I meccanismi sono evidentemente altri e si riassumono in logiche che poco o nulla hanno a che vedere con il sesso fondandosi, invero, sulla maggiore o minore capacità di creare un “affidamento”.

Ora come ora dobbiamo “affidarci” alle capacità di governo di Giorgia Meloni, di cui si può non condividere pienamente il pensiero politico o l’impostazione ideologica, ma ha comunque prevalso nel contesto elettorale e non ci resta che augurarci che da combattiva leader dell’opposizione si trasformi in valida rappresentante degli interessi del popolo italiano.

Dunque, e comunque sia, buon lavoro Signora Presidente del Consiglio. Che preferisca una “a” o che preferisca una “o”, ciò che conta è che questa Giorgia tricolore ci conduca fuori dalla crisi.

Giuseppina Di Salvatore – Avvocato, Nuoro

© Riproduzione riservata