Certo, le fibrillazioni che a varia intensità promettono di scuotere ulteriormente, e probabilmente in maniera definitiva, il neo-nascendo Governo Meloni (se proprio e davvero lei sarà il nostro presidente del Consiglio dei ministri) non ci sorprendono né dovrebbero sorprenderci, ed erano nell’aria fin dalle prime battute della campagna elettorale che ha preceduto il voto del 25 settembre.

E se in una situazione di “normalità” (sempre che in un Paese come il nostro una “normalità” sia mai esistita nel periodo che dalla fine della Prima Repubblica si estende fino ai nostri giorni), tali fibrillazioni rappresenterebbero, né più né meno, pure e semplici scosse di assestamento utili al rinvenimento di “accordi di convivenza” tra le forze politiche in campo, nella condizione presente caratterizzata da tutte le emergenzialità post-pandemiche e attuali belliche costituiscono senza dubbio pericolosissimi segnali di distonia dialettica idonei a compromettere non solo i rapporti di forza venutisi a determinare all’esito del voto, ma anche, e soprattutto, ogni credibilità sul piano relazionale e internazionale del Paese, esposto come sempre e più di sempre non solo alle critiche incandescenti provenienti dalle Istituzioni Europee e dalle Cancellerie maggiormente accreditate, ma anche all’“amministrazione controllata” esercitata dall’Alleato atlantico, del tutto interessato a conservare la propria influenza sull’area del Mediterraneo quale osservatorio privilegiato e punto di snodo di ogni rapporto con la macro-area medio-orientale.

Insomma, e per farla davvero brevissima, possiamo gestire e dominare l’intera situazione contingente e la potenziale durata (se riuscirà a vedere la luce) del Governo Meloni solo ed unicamente se la leader in pectore si mostrerà all’altezza del compito e del ruolo che le verrà affidato, riuscendo a rinvenire un punto di equilibrio forte tra le contraddizioni di un atlantismo estemporaneo ancora annacquato di imperialismo e nazionalismo e le fasi alterne di un europeismo mutevole che tutto sommato si contrappone al primo, sul piano semantico financo, nel tentativo di proporsi come ideologia alternativa, seppure ancora ad esso complementare.

Già: perché in fondo la scelta atlantista, sebbene in vario modo storicamente motivata, mai come in questo momento l’abbiamo “pagata” e la stiamo “pagando” a caro prezzo, non solo in bolletta ma anche con riferimento al carrello della spesa (ogni giorno più vuoto) e in generale nella quotidianità. Circostanza, quest’ultima, a ben riflettere paradossale, nel senso che se un sacrificio ci viene richiesto in forza di quella “alleanza”, allora quella stessa “alleanza”, se davvero fosse stata e fosse tale, avrebbe dovuto e dovrebbe tenerci indenni quanto meno dalle conseguenze pregiudizievoli di una scelta radicale operata nel contesto di un conflitto a noi totalmente estraneo e di cui, a onor del vero, avremmo volentieri fatto a meno.

Ma così non è stato: e del tutto sorprendentemente, saremmo portati a commentare. I partenopei direbbero: “Cornuti e mazziati”. Ma tant’è. Neppure sappiamo se un nuovo Europeismo (comunque assai distante sul piano ideale per la fiera opposizione dei maggiori Stati Membri che tutto hanno da guadagnare rispetto alla marginalizzazione dell’Italia) che fosse autonomo, social-democratico e aperto al mondo globalizzato, potrebbe rappresentare la formula di contrappasso di un sistema bi-polare che ad oggi si rivela in tutta la sua inefficienza, per essere comunque inidoneo ad esprimere la realtà geopolitica di recente affermazione. Quanto meno così sarà fino a quando non si smetterà di concepire l’Unione Europea come una estensione del Patto Atlantico di cui l’Italia fu una dei primissimi firmatari.

E se tale si presenta il disagio sul piano internazionale che Giorgia Meloni potrebbe trovarsi ad affrontare, e possibilmente a risolvere in qualunque modo, la situazione non sembra certamente più semplice sul piano interno, nel contesto del quale le “fibrillazioni” più fastidiose si presentano e si agitano proprio all’interno della “coalizione di bandiera” in ragione dei malumori espressi dal leader di Forza Italia, marginalizzato proprio dagli stessi “rampolli” che ha contribuito a condurre al successo. Probabilmente il presidente Berlusconi, fondatore unico di quel centro-destra glorioso oramai inesistente, non è riuscito a rendersi conto per tempo delle trasformazioni che nel corso degli anni si sono fatte strada nel contesto di quella “creatura” politica che proprio lui aveva fortemente voluto. E, di certo, la questione del famoso “pizzino”, catturato dai cronisti in Parlamento, non costituisce un precedente edificante per un leader della sua rilevanza, né un presupposto utile a ricostruire comunque uno strappo che oramai si è consumato in maniera palese.

Ci si attendeva che queste elezioni si ponessero come punto di svolta sia sul piano interno che su quello internazionale. Ma la realtà si annuncia assai differente, perché (e di questo non si vuole fare una colpa) una cosa è adagiarsi sull’essere “Partito di Lotta” costantemente all’opposizione, altro è diventare di punto in bianco “Partito di Governo” con ogni conseguenza pure nei termini ristretti della imposta perdita di coerenza. E se è vero, come è vero, che aveva ragione Sandro Pertini quando affermava che “è meglio la peggiore delle democrazie della migliore di tutte le dittature” (con buona pace di certa Sinistra incapace di fare un autonomo e sincero “esame di coscienza”), allora, indubbiamente, Giorgia Meloni è oggi chiamata a realizzare la migliore forma di democrazia possibile, con o senza Silvio Berlusconi, diretta a rifondare un nuovo Patto Atlantico tra Paesi parimenti Liberi e Sovrani che siano in grado di gestire insieme, a condizioni di parità, la polarizzazione crescente tra la inadeguatezza delle varie “democrazie” nel contesto della gestione delle crisi e l’apparente efficienza delle “dittature” popolar-populiste che ancora trovano la forza di sopravvivere.

È chiaro che una scelta di campo di tal fatta condurrebbe la leader di Fratelli d’Italia a rivedere interamente la propria ideologia, ma in fondo le persone intelligenti questo pure fanno quando le circostanze lo richiedono. La parola ultima dovrà pronunciarla la nostra Giorgia: destra post-fascista sublimata dall’esperienza centrista (che nessun cambiamento utile porterebbe al Paese), destra progressista annacquata di atlantismo ed europeismo recessivo (troppo allineata alla impostazione ibrida che fu di Mario Draghi e che andrebbe finalmente archiviata), o neo-revisionismo (auspicabile seppure complesso e faticoso)? Dalla scelta di governo dipenderà il ritorno o meno alle urne in tempi ristretti, con tutto ciò che ne conseguirebbe sul piano della tenuta sociale ed economica di Paese già profondamente “in panne”.

Giuseppina Di Salvatore 

(Avvocato – Nuoro)

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