Stando alle parole del presidente Christian Solinas, «l’impegno del Governo per la rimozione degli squilibri economici derivanti dall’insularità, ora sancito anche nel testo del disegno di legge approvato in Consiglio dei Ministri all’unanimità, testimoni(erebbe) la volontà di dare la giusta attenzione ai diritti delle isole per troppo tempo ignorati e negati». Nulla quaestio, il richiamo nel ddl sulle Autonomie Differenziate ci è stato. Ma in cosa questo richiamo si sostanzierebbe all’atto pratico? In che modo, nel contesto dello specifico provvedimento normativo di riferimento, l’insularità dovrebbe rinvenire la sua attualizzazione per divenire concretamente apprezzabile per il Popolo Sardo in termini di benefici? In che modo, volendo intenderci meglio, la “insularità”, inserita in quello specifico contesto normativo, dovrebbe passare dalla sua condizione di “significante” (ossia dalla rappresentazione mentale che ciascuno può avere) a quella di “significato” (ossia alla sua espressione concreta riempendosi di contenuti)?

La proposta del ministro Calderoli sull’autonomia differenziata sembrerebbe proporsi l’intento di conferire alle regioni poteri più ampi e intensi in relazione ad alcune competenze specifiche, nel rispetto dei principi dettati dalla Carta Costituzionale. Ma sarebbe opportuno, probabilmente, intenderci interrogandoci di più: ci sono differenze tra il concetto di autonomia differenziata e il concetto di autonomia regionale sic et simpliciter considerata?

Il quesito sembra essere tutt’altro che peregrino. Intanto perché, per autonomia regionale, generalmente, si intende la potenzialità delle varie regioni di “reggersi” in via autonoma all’interno di un sistema statale più ampio, articolato e complesso. Quindi perché, conseguentemente, siffatte regioni avrebbero, come di fatto hanno fin d’ora, il potere di legiferare e assumere decisioni in materia di politiche pubbliche che concernono il proprio perimetro geografico di riferimento nell’intento di perseguire l’obiettivo di assicurarne una maggiore partecipazione democratica e una gestione maggiormente efficiente delle risorse locali: a titolo esemplificativo, la Regione Lombardia, quale regione di massimo efficientismo gestionale (la circostanza non si può certo negare), ha il potere di gestire il proprio sistema sanitario, essendo dotata di un piano organizzativo e “pianificatorio” autonomo rispetto al governo centrale per offrire un riscontro maggiormente sollecito alle esigenze della sua popolazione e di adottare politiche sanitarie più efficaci. Inoltre perché, e questa è l’altra faccia della medaglia, l’autonomia regionale può anche entrare in collisione con gli interessi del governo centrale: circostanza, quest’ultima, che si sostanzia nel momento in cui le politiche regionali entrino in conflitto con quelle nazionali siccome, all’evidenza, la decentralizzazione del potere può anche portare, come spesso parrebbe accadere, a disuguaglianze tra le regioni più ricche e quelle meno sviluppate. Infine perché, anche nel contesto semplificato, e già esistente, delle autonomie regionali, è fondamentale, e non sempre di facile perseguimento, garantire un equilibrio costante tra le differenti autonomie regionali e il principio irrinunciabile di coesione nazionale. Elemento quest’ultimo che potrebbe invero risultare gravemente compromesso nell’ipotesi di concreta espressione del ddl sulle Autonomie Differenziate sebbene integrato dal generico (perché generico allo stato parrebbe essere) richiamo al principio di insularità.

Il perché è presto detto. Tanto per cominciare, benché autonomia regionale e autonomia differenziata siano entrambe forme (si badi bene parallele) di autonomia politica concessa alle regioni in un Paese, la prima, e più correttamente, parrebbe riferirsi alla capacità delle regioni di “autogestirsi” in materia di governo locale, come l’organizzazione dei servizi pubblici, la gestione del territorio, la cultura e l’istruzione giacché, in questo senso, tutte le regioni godono degli stessi livelli di autonomia e hanno gli stessi poteri e responsabilità, mentre la seconda, invece, ossia la autonomia differenziata, intenderebbe riferirsi, e conseguentemente sostanziarsi, alla/nella concessione di un livello più elevato di autonomia a specifiche regioni che parrebbero avere (e la circostanza dovrebbe essere sottoposta ad analitico esame) bisogni e caratteristiche differenti rispetto alle altre.

Tradotto in soldoni: l’attuazione del ddl Calderoli, a conti fatti, anche con l’aggiunta del riferimento all’insularità, che davvero non si capisce in quale maniera, stando alla semplice enunciazione di concetto, dovrebbe trovare garanzia all’interno delle varie “autonomie” di carattere autoreferenziale, andrebbe ad assicurare, ad alcune regioni soltanto, maggiori poteri in certi settori, come l’istruzione o la sanità, rispetto ad altre regioni che invero, stanti i differenti livelli di sviluppo, resterebbero “indietro” in piena violazione del su richiamato principio di coesione nazionale. In estrema sintesi, potremmo dire che se anche idealmente l’autonomia regionale, comunque intesa, potrebbe configurarsi come un importante strumento di “governance” per essere idonea, sul piano dell’astrazione ideologica, a conseguire il miglioramento della partecipazione democratica e della gestione delle risorse locali, allo stato, sul piano squisitamente pratico, non sarebbe tale, difettando le condizioni basilari, ossia l’omogeneità delle condizioni di partenza, delle singole e potenziali autonomie territoriali.

A voler ragionare diversamente si finirebbe, paradossalmente, per violare il principio dell’unitarietà dello Stato: crescere insieme per crescere bene colmando il gap geografico, strutturale e gestionale delle Regioni che presentano maggiori criticità. Solo una volta conseguito l’obiettivo anzidetto si potrebbe ragionare sulla necessità di conseguire forme più evolute di decentramento gestionale, anche se, a onor del vero, l’esigenza inevitabilmente scemerebbe se davvero si orientassero tutte le energie governative nel conseguimento di condizioni di sviluppo paritetico delle differenti entità regionali. Tanto più allorquando, siffatto obiettivo fosse in linea, come di fatto è in linea, con il piano di sviluppo imposto dalla concessione dei fondi PNRR per il sud Italia. Con buona pace di quanti vogliano le autonomie differenziate.

Il regionalismo differenziato non può costituirsi by-passando la tematica preventiva della risoluzione dei problemi che hanno caratterizzato gli ordinamenti regionali latamente intesi del divario Nord – Sud (l’azzeramento del gap si presenta come fondamentale per la crescita del Paese), cui è strettamente riconducibile il corretto riparto delle risorse (fino ad oggi purtroppo non ancora paritario, per quanto parrebbe comprendersi), di modo tale da non imporre un regionalismo competitivo e rimanere (come richiede la Corte Costituzionale) nell’ambito contestuale di un regionalismo cooperativo.

A conti fatti, l’aver inserito il riferimento all’insularità in un provvedimento diretto a differenziare i contesti autonomistici, oltre ad apparire come una contraddizione in termini (almeno così sembrerebbe in assenza di più precise indicazioni di carattere contenutistico), parrebbe vanificarne il contenuto, compromettendone la concreta attuazione. Ben vengano le richieste autonomistiche delle regioni a statuto ordinario, ma di certo non ora, siccome sembrerebbe difettare il contesto giuridico ed amministrativo utile a garantirne una uniforme attuazione: unità nella diversità, ma pur sempre e comunque unità. Prescindere da una visione complessiva non si può, se non a costo di volersi assumere la responsabilità (il Governo, si intenda) di intraprendere una fase legislativa ed esecutiva nella quale venga ad incrinarsi gravemente, se non proprio a spezzarsi, l’unità dell’ordinamento.

Giuseppina Di Salvatore

(Avvocato – Nuoro)

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