D a qualche settimana costituzionalisti e opinionisti si pongono un quesito, ovvero se il nostro sistema politico attraversi o meno una fase di sostanziale sospensione delle regole democratiche. Attualmente, infatti, anche il Parlamento è stato messo in quarantena e tutte le decisioni vengono accentrate da un gabinetto di guerra che ricorre alla decretazione d'urgenza.

T utto questo va a scapito della collegialità e del dibattito previsto dalla Costituzione in quanto di fatto espropria il parlamento di quelle che sono le sue principali facoltà: il dibattito, la possibilità di emendare delle proposte, di modificarle e anche di respingerle. Viceversa, il potere politico che in condizioni ordinarie è ripartito fra diversi organi viene concentrato nelle mani di pochissime figure, la principale delle quali è il presidente del consiglio Giuseppe Conte, su cui si riversano inevitabilmente critiche e polemiche da parte degli schieramenti di opposizione e anche di maggioranza.

La polemica è in alcuni casi così feroce e aspra che giustifica persino il ricorso ad accuse di autoritarismo strisciante e di subdola creazione di uno stato securitario o di polizia, scenari che prefigurano, come in un racconto distopico, un percorso di non ritorno alle libertà democratiche. Contestualmente, la frustrante impotenza di fronte alla diffusione del virus e la volontà di reagire più drasticamente di fronte alla tremenda pandemia conduce molti commentatori a invocare modelli e soluzioni come quelli adottati in Cina e in Corea del Sud.

Paradossi, spesso dettati dall'esasperazione, ma anche riflessioni che ci portano a capire quanto fragile sia la costruzione democratica che, nonostante tutte le sue difettosità e lacune, resta ancora la miglior forma di governo. A questo proposito, è interessante sottolineare come proprio a causa dell'emergenza sia stato giustamente rinviato il referendum del 29 marzo che avrebbe chiesto ai cittadini italiani di esprimersi in merito al taglio dei parlamentari. Per uno scherzo del destino una riforma che poteva ridurre di un terzo la rappresentanza parlamentare viene scavalcata dalla realtà, in quanto al momento le Camere possono lavorare solo mediante la convocazione dei capigruppo e consentono di intervenire in assemblea soltanto a una ristretta pattuglia di deputati e senatori. Di fatto, l'auspicata riduzione della rappresentanza parlamentare si traduce a causa del virus, in una sostanziale decapitazione del principale organo di rappresentanza popolare.

Da parte loro, i presidenti di Camera e Senato, Fico e Casellati, hanno più volte replicato all'accusa di sospensione democratica, riportando quale parziale giustificazione che le Camere sono “aperte” e del tutto funzionanti. Certo, lo sono formalmente, ma sostanzialmente il dibattito dalla sede istituzionale si è trasferito in altre sedi: talk-show, interviste, dichiarazioni via Facebook e Twitter dove più che la sostanza del ragionamento viene premiata l'enfatizzazione della polemica. Tutto ciò a scapito di un dibattito fra rappresentanti eletti che i sistemi democratici non hanno mai sottratto alle assemblee elettive neppure durante le guerre. Di conseguenza, per placare una smania di comunicazione schizofrenica e incontrollata e per ricondurre il confronto fra le parti soprattutto nella sede di competenza per eccellenza, ovvero nel Parlamento, appare inderogabile valutare una qualsiasi modalità che consenta il ripristino del dibattito nelle Camere, in modo da sgravare l'esecutivo di una responsabilità politica oggettivamente sproporzionata.

MARCO PIGNOTTI

UNIVERSITÀ DI CAGLIARI
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