Mes, il fondo che divide
Beniamino MoroU n recente documento di una trentina di economisti di varie università italiane è stato strumentalizzato da Salvini in Parlamento, leggendo al Senato i nomi dei firmatari e lodandoli per la loro presa di posizione contraria all'adesione dell'Italia al Mes, il Meccanismo europeo di stabilità finanziaria, noto anche come Fondo salva Stati.
I diretti interessati hanno smentito che il loro intento fosse quello di appoggiare la posizione anti-Mes della Lega, ma la frittata era fatta: questo è un caso di eterogenesi dei fini, quando cioè le tesi sostenute vengono strumentalizzate per raggiungere un obiettivo diverso se non opposto a quello che in realtà si vuole perseguire.
Nel documento in questione, i colleghi economisti svolgono un'analisi critica puntuale, traendone una conclusione giusta e una sbagliata. La premessa è che l'aiuto agli Stati non in linea con i parametri stabiliti dalle regole del Mes «è previsto solo a patto di pesanti condizionalità, tra le quali giudizi sulla sostenibilità del debito e sulla capacità di rimborsarlo, in seguito ai quali può essere richiesta allo Stato in questione una ristrutturazione del debito».
Tra i parametri scelti per formulare tali giudizi rientra il “saldo strutturale” (calcolato al netto del ciclo economico), un concetto che in letteratura si è dimostrato inaffidabile. Perciò, l'uso di tale parametro per giustificare un'eventuale ristrutturazione del debito sarebbe di per sé destabilizzante.
I n sostanza configurerebbe una situazione in cui la crisi può essere innescata da un cambiamento non sufficientemente ponderato delle stesse regole, come già avvenne quando è stato introdotto il bail-in (salvataggio interno) nella risoluzione degli istituti bancari in difficoltà.
«Così - è scritto nel documento -, uno strumento che dovrebbe aumentare la capacità di affrontare le crisi può trasformarsi nel motivo scatenante di una crisi». La conclusione è drastica: il Mes «è un organismo per noi inutile: non ne abbiamo bisogno e comunque ricorrervi peggiorerebbe la nostra situazione». Questa conclusione non è condivisibile, perché se l'Italia decidesse per ripicca di restarne fuori, sarebbero dolori ancora più gravi, esponendosi troppo scopertamente agli attacchi speculativi dei mercati, che a quel punto sconterebbero il fatto che senza la solidarietà europea, che vuol dire intervento di copertura del Mes e della Bce, l'Italia da sola non sarebbe in grado di mettere un limite alla crescita del rapporto debito/Pil e la probabilità di default schizzerebbe pericolosamente verso l'alto.
Totalmente condivisibile, invece, è la seconda parte del documento, che riguarda il completamento dell'unione bancaria con l'istituzione di una garanzia comune dei depositi.
A tal fine, il ministro tedesco delle Finanze, Olaf Scholz, ha proposto di attribuire un coefficiente di rischio ai titoli sovrani posseduti dalle banche, una scelta che, se accolta, causerebbe al nostro sistema bancario perdite ingenti sul patrimonio titoli, innescando una nuova crisi bancaria di tipo sistemico, che coinvolgerebbe l'intero sistema bancario europeo. Pensando alla debolezza del sistema bancario tedesco, è probabile che il governo di Angela Merkel ritiri la proposta di Scholz, che potrebbe scatenare una nuova crisi sistemica tra debiti sovrani e sistemi bancari del Vecchio Continente.
Al riguardo, è altrettanto condivisibile la conclusione generale del documento, secondo cui «i compromessi sono possibili e auspicabili, ma si raggiungono quando ciascuna delle parti tiene conto delle posizioni e delle necessità delle altre, cosa che finora non è avvenuta. L'Italia avanzi delle proposte alternative su tutto il pacchetto delle riforme, dimostrando che riduzione del rischio e crescita non sono due obiettivi antitetici». In tali proposte, ci permettiamo di aggiungere, non deve mancare un piano credibile di riduzione del rapporto debito/Pil, per superare la diffidenza dei Paesi nordici sulle nostre capacità di controllo dello stesso debito pubblico.
BENIAMINO MORO
UNIVERSITÀ DI CAGLIARI