C hiedetemi di parlare di Medio Oriente. Di globalizzazione. Di islamismo estremo, delle ragioni per la Brexit, di immigrazione. Di qualsiasi cosa, vi prego, ma non di scrivere qualcosa di originale sull'8 marzo, il giorno della donna. Perché è praticamente impossibile e in più deprimente. Tutto è stato detto e il cambiamento, quando c'è, procede a passo glaciale.

Per affrontare l'8 marzo, più di una mimosa di tipo floreale, ho bisogno di una mimosa di tipo alcolico (spumante e succo di arancia, ottimo cocktail per unire l'assunzione di alcol con l'assunzione di vitamina C). Ma ok, proviamoci. Abbiamo il dovere di non perdere la speranza.

Iniziamo dai fatti. Essere donna in Italia è una grande fortuna. Dovremmo ringraziare Dio di non esser nate in posti dove la sola idea dell'eguaglianza è inesistente, dove non possiamo scegliere se, con chi e quando sposarci, dove i nostri organi sessuali sono mutilati sotto pretesti culturali e religiosi, dove lo stupro è usato come arma di guerra, dove la più alta probabilità di morte precoce è durante il parto e dove non abbiamo nessun diritto legale ai nostri figli, che rimangono sempre “proprietà” della famiglia del padre.

Va bene, poteva andarci peggio. Ma guardiamo in dettaglio dove siamo nella classifica globale di parità di genere. È difficile avere una immagine esatta, ma la più attendibile rimane la lista annuale del World Economic Forum di 149 paesi. Ai primi posti nel 2018 troviamo i soliti sospetti: Islanda, Norvegia, Svezia, Finlandia. (...)

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