Il 23 marzo, per la quarta volta in due anni, gli israeliani si sono trovati a dover esprimere il proprio voto per le elezioni politiche. Ancora una volta però il paese non ha saputo dare una risposta chiara ed è oggi in un limbo, col rischio di dover votare di nuovo entro fine anno.

L’appello del Presidente Reuven Rivlin, che aveva fortemente richiamato alle urne i cittadini affinché usassero il grande valore del voto per dare un governo al paese, non è stato ascoltato: l’affluenza è stata del 67,3%, inferiore di 4 punti rispetto alle ultime elezioni del marzo 2020. Senza dubbio il dover continuamente andare a votare, alla lunga ha creato un effetto di allontanamento, anche perché si è avuta l’impressione che malgrado la mobilitazione poi non si potesse ottenere un risultato.

Inoltre, è possibile che anche l’eccessiva polarizzazione (tutti con o tutti contro l’eterno Benjamin “Bibi” Netanyahu) non abbia aiutato alla fine a sviluppare alternative credibili.

Come detto più volte, il sistema elettorale israeliano è un proporzionale puro, con soglia di sbarramento al 3,25%: una idea nata per permettere una ampia rappresentazione della società, ha di fatto creato una enorme parcellizzazione che in queste elezioni ha portato alla Knesset addirittura 13 partiti.

Quali sono i risultati di martedì e come interpretarli alla luce di questa sorta di referendum pro o contro Netanyahu? Di fatto, ancora una volta, Bibi non vince ma non perde neanche.

Il Likud del Primo Ministro continua a esser il primo partito con 30 seggi ma ne ha perso 7 dallo scorso anno; nel blocco sicuramente pro-Bibi ci sono poi lo Shas (ultraortodossi di origine vicino e medio-orientale) che conferma i suoi 9 eletti, lo United Torah Judaism (un’unione di partiti ultraortodossi di origine europea) con 7, e Religious Zionist (una formazione ugualmente religiosa di destra) con 6.

Totale 52 seggi, meno 9 alla maggioranza della Knesset.

Nel blocco sicuramente anti-Bibi ci sono Yesh Atid (moderati, liberali e secolari) con 17, Blue bianco (centristi liberali) con 8, Labor e Meretz (sinistra) con 7 e 6, Ysrael Beiteinu (nazionalista di destra e anticlericale, che contesta l’alleanza coi religiosi) con 7, the Joint List (alleanza di 4 partiti arabi) con 6 e Nuova Speranza (formazione di destra di Gideon Saar, ex Ministro di Bibi). In totale fa 57 ma è un gruppo di partiti assolutamente eterogeneo.

Restano due partiti che per ora non sembrano aver preso posizione: Yamina (una unione di partiti di destra ed estrema destra) che ha 7 seggi e la Lista Araba Unita (partito religioso arabo) che ha 4 seggi.

Dal Likud le accuse che arrivano alla controparte sono di aver montato una antidemocratica campagna unicamente contro Netanyahu. In quella coalizione Bezalel Yoel Smotrich, leader di Religious Zionist, ha escluso la possibilità di avere un governo supportato anche dalla Lista Araba Unita (anche appoggio esterno). Yar Lapid, leader di Yesh Atid, potrebbe provare a assemblare un possibile sostegno parlamentare ma appare ugualmente abbastanza difficile.

Queste elezioni, oltre ad aver portato alla Knesset un eccesso di piccoli partiti, hanno contestualmente presentato un risultato dove i religiosi continuano ad avere un enorme peso ma dove anche la sinistra è tornata a dare segni di vita (merito anche di Merav Michaeli, giornalista e recente leader del Labour).

Si conferma comunque una spaccatura netta della società israeliana tra religiosi e laici.

Fatta tutta questa premessa restano in ogni modo aperte ancora molte porte, perché la politica israeliana è perfino più difficile da prevedere di quella italiana: nello scorso aprile fu Benny Gantz, con un gruppo di eletti del partito Blu e Bianco, a rinunciare al tentativo di fare un governo e dopo essersi separato a sorpresa dall’ex giornalista televisivo Yair Lapid, andò a fare la stampella di una sorta di governo di unità nazionale dove avrebbe dovuto alternarsi con Bibi come Primo Ministro. Sempre in quella occasione anche Amir Peretz, leader storico del Labour, decise di sedersi al tavolo del governo come Ministro dell’economia: lo stesso Peretz, pochi mesi prima, si era tagliato i suoi voluminosi e caratteristici baffoni dopo ben 47 anni affinché, sue parole dette in diretta televisiva, “tutto Israele capisca esattamente quello che sto dicendo e sia in grado di leggere le mie labbra: non mi siederò con Bibi”.

Sopra tutta questa situazione complicata, resta il processo per corruzione, frode e abuso di potere in due distinte inchieste che vede imputato Netanyahu: fondamentalmente delle pressioni esercitate su due editori per avere trattamenti di favore da due testate (il tabloid Yediot Ahronot e il sito Walla). Non sembra che l’eterno premier israeliano ne abbia risentito molto ma il dibattimento, che era stato posticipato al 5 aprile per non influenzare lo svolgimento delle elezioni, ora non potrà esser più rinviato.

La festività di Pesach, ossia la Pasqua ebraica, cade quest’anno dal 28 marzo al 4 aprile: se la situazione resterà questa il sapore delle erbe amare che per tradizione bisogna mangiare rimarrà in bocca a tanti.

Filippo Petrucci
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