Si dice che il domandare sia una attività lecita e che il rispondere sia solo questione di cortesia soprattutto quando l’interrogativo sia scomodo sul piano degli interessi in campo. Se così fosse, potremmo dire che questa “guerra”, già “operazione militare speciale” russo-ucraina, abbia contribuito a rivelare, nei rapporti tra gli Stati Uniti e l’Unione Europea, e malgrado l’allineamento istituzionalizzato del vertice rappresentato da Mario Draghi, una necessaria quanto differente visione sul futuro dell’ordine internazionale che, per i primi, si concentrerebbe sul loro potere indiscusso mentre, per la seconda, si cristallizzerebbe sulla condivisione del potere internazionale medesimo tra più potenze sulla scorta di una concezione “democratica” della gestione politica delle relazioni?

Sul piano geostrategico, e riconducendo la questione alle articolazioni delle dinamiche “democratiche”, ha un senso per noi europei continuare a sostenere il “capriccio” strategico americano diretto a portare avanti, quasi esasperandola, la tattica del contenimento della potenza sovietica? Innegabilmente, ogni riflessione sugli specifici aspetti segnalati difficilmente sembra poter prescindere dalla considerazione dell’esistenza di un principio di pluralismo istituzionale comune agli uni e all’altra e che rappresenta, a più riprese, e su più livelli, il vero e unico ostacolo (e diremmo noi fortunatamente) alla affermazione di decisioni univoche e uniformizzate tanto al loro interno quanto nei rapporti reciproci. E la circostanza non può che tradursi, parimenti, in una differente gestione del potere democratico e della “democrazia” autonomamente considerata la quale, all’evidenza e nonostante i tentativi del nostro presidente del Consiglio dei Ministri, non si presta (o meglio, non dovrebbe prestarsi), in linea teorica, a condizionamenti “esterni” se non nella misura utile a consentirne l’evoluzione controllata e funzionale all’interesse della compagine dalla quale essa promana.

Tradotto in soldoni: quale convenienza, oggi come oggi, nella cornice di questo odioso conflitto armato, potrebbe ritrarre l’Unione Europea dal seguire “prona” e “riverente” l’input a stelle e strisce? Evidentemente nessuno. Intanto perché il prossimo e potenziale allargamento a est dell’Unione, come pure l’adesione alla Nato di Finlandia e Svezia, se per un verso valgono a mettere in discussione l’asse franco-tedesco, per l’altro verso contribuiranno a rafforzare, con buona verosimiglianza, le posizioni meno critiche nei confronti dell’unilateralismo americano, costringendoci a sopravvivere “mutilati” sul piano democratico a un amichevole “abbraccio mortale”. Quindi perché, diversamente da quanto in tanti (e per primo lo stesso Mario Draghi) paiono voler ritenere, l’Unione Europea, quale sistema ontologicamente multilaterale, è per sua stessa natura prudente rispetto ai meccanismi perversi dell’uso della forza comunque sorprendentemente prescelti e caldeggiati nel caso specifico del conflitto in essere. Infine perché questa diversità culturale geostrategica, inverosimilmente dilatata fino al rischio della scollatura, lungi dal poter essere portata alle estreme conseguenze, rappresenta l’elemento principale di debolezza interlocutoria relazionale la quale contribuisce, a sua volta, a renderci succubi di una impostazione bellica “esterna” alla quale non riusciamo a resistere per mancanza di leadership autonome e pluraliste. Tanto più allorquando tale condizione sia funzionale a configurare l’Unione Europea nei termini di una pseudo-potenza a “obsolescenza programmata”, siccome incapace di rinvenire nei principi democratici che dovrebbero governarla l’ispirazione liberale perseguita dai suoi fondatori.

Laddove non si fosse ancora capito, prima ci si libera del giogo mentale che erroneamente configura gli Stati Uniti quale super potenza utile a gestire la minaccia esterna (a chi e/o a cosa non sembra dato sapersi), prima potremo pervenire alla consapevolezza che al di là del colosso atlantico, e al di fuori di quel circuito chiuso e auto-riferito, esistono poteri “altri”, quali quelli di Russia, Cina, India e Giappone, del tutto capaci, per la loro incidenza economica, di alterare, a loro favore, e come pare accadere nel contesto contingente, ogni equilibrio democratico apparentemente consolidato.

Detto altrimenti: siamo noi in grado di definire cosa sia, e se esista, una “democrazia europea” anche solo latamente intesa? Ogni sforzo interpretativo, anche acuto, sul punto specifico è destinato a rivelarsi fallace e appare parimenti destinato a infrangersi sul muro dell’evidenza fenomenica. Se è vero, infatti, che ogni forma democratica funzionante necessita di istituzioni e procedure idonee (quali paiono essere, ma non sono, quelle europee), tuttavia è altrettanto vero che quelle "sovrastrutture", identificate con i centri di potere, a quasi nulla possono servire laddove difettino (sempre come nel caso della nostra Unione) comunità condivise, identità, accettazione collettiva di impegni obbligazionari, rispettoso riconoscimento reciproco.

Il deficit democratico europeo continua a costituire, anche successivamente al Trattato di Lisbona del 2009, il vero e irrisolto ostacolo verso l’affermazione della compagine tutta nell’universo globalizzato dominato, a più riprese, dalla coesistenza sbilenca dei due “blocchi” all’interno dei quali il Vecchio Continente rappresenta unicamente una Terra di conquista da “colonizzare”.

Fintanto che continueranno a mancare veri leader politici e Uomini di Stato, saremo destinati a barcamenarci tra soluzioni di compromesso apparente utili e vantaggiose nel breve termine ma distruttive nell’ottica futura.

È oltremodo evidente che la persistente e ostinata conservazione dello status quo e l’asservimento acritico ai diktat americani non possono che favorire il dissolvimento del sistema europeo, siccome frammentario sul piano sociale e inesistente su quello politico. Per noi europei, se davvero tali vogliamo fregiarci di essere considerati, esiste una sola via di uscita: dobbiamo iniziare a rifiutare ogni narrazione che possa indurci ad appoggiare la nostra solidità esistenziale a una idea perversa di “perfezionismo” delle istituzioni democratiche americane; e dobbiamo iniziare a maturare la consapevolezza che la predilezione dello strumento armato quale metodo di risoluzione delle controversie, lungi dal costituire una manifestazione di forza, costituisce, all’inverso, il segnale evidente del tracollo dello stra-potere americano che, ora più che mai, necessita di una Europa forte che sia in grado di assumere le redini del governo di un mondo in piena trasformazione.

L’Europa sembra essere indirettamente chiamata ad assumere il ruolo di Potenza guida, e lo è nel momento di sua maggiore debolezza. Occorre razionalizzare quanto prima il rapido evolversi degli eventi se non si vuole correre il serio rischio di restarne travolti irrimediabilmente. Lo schieramento occidentale è mutato e con esso il livello di responsabilità richiesto ai suoi componenti. Vogliamo essere noi a costituire il modello di riferimento del cambiamento, oppure vogliamo rassegnarci a fungere da stampella arrugginita destinata a soccombere sotto il peso gravoso di “sanzioni” auto-mortificanti? 

Giuseppina Di Salvatore

(Avvocato – Nuoro)

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