Mentre Ursula von der Leyen, nella sua veste di presidente della Commissione Europea, sembra travolta (e si fa per dire) da un episodio di “bulimia” dialettica allorquando tenti di rassicurare il presidente Volodymyr Zelensky, sia pure con evidente imbarazzo non sappia dire come, sulla prossima annessione dell’Ucraina all’Unione Europea, intanto, sul fronte italiano, Mario Draghi, non meno prodigo sul piano espressivo, si era già fatto lecito, nei giorni scorsi, di ridicolizzare, o quasi, la grave crisi economica in atto riconducendola alla stregua di una scelta tra il “condizionatore acceso” in estate e il perseguimento della pace sul piano internazionale nella consapevole incertezza tanto dell’“an” quanto del “quando”. Senza peraltro considerare, tanto l’una quanto l’altro, dall’alto della loro carica istituzionale, che ogni forma di idealismo spicciolo ed estemporaneo non solo rappresenta un lusso riservato a coloro che hanno il “portafoglio gonfio” e la “pancia piena”, ma costituisce anche un inutile (e probabilmente offensivo) esercizio speculativo retorico per quanti, i più, si trovino costretti a monetizzare minuziosamente il quotidiano per riuscire a sbarcare il lunario.

Ma, al di là di ogni considerazione scontata sulla (in)opportunità di dichiarazioni di siffatta consistenza, siamo davvero sicuri che l’annessione della Ucraina all’Unione Europea sia la scelta più opportuna? Siamo sicuri che l’allargamento a est dell’Europa non abbia costituito, e non continui a costituire, un’impresa fallimentare alla quale porre fine una volta per tutte? Intendiamoci: il fatto di porsi degli interrogativi non deve necessariamente perplimere le coscienze e/o, peggio, tradursi in una qualunque forma di ostracismo storico. E nemmeno rappresenta il riflesso di un malumore nazionalista egoisticamente inteso. Tutt’altro. Si tratta piuttosto di riflettere sulla circostanza che determinati “blocchi”, quand’anche oramai inesistenti sul piano fisico e naturalistico, continuano a sopravvivere, più o meno inconsapevolmente, nell’intimo delle popolazioni direttamente interessate, e continuano a riflettersi sul piano geopolitico strettamente inteso condizionandolo.

Intanto perché già l’ingresso in Europa dei Paesi del cosiddetto “Gruppo Visegrad”, ossia Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria, se, per un verso, pare aver favorito il progresso delle istituzioni pubbliche di loro diretto riferimento, per altro verso non è riuscito a condizionarne favorevolmente il processo di evoluzione in senso liberale che ci si sarebbe voluto attendere. Quindi perché quelle “democrazie alternative” (se mi si consente l’espressione), inserite “sic et simpliciter” nel contesto europeo, paiono aver voluto e saputo trovare unicamente uno sbocco politico-rappresentativo di stampo marcatamente populista e oltranzista, poco incline, per ciò stesso, a favorire l’apertura delle loro frontiere e a perseguire indirizzi di accoglienza condivisa quale espressione ampia di un socialismo rafforzato probabilmente mai esistito. Infine perché, notoriamente, per i Paesi dell’Est a confine tra il Mondo Occidentale e quello Orientale, l’ingresso nell’Unione, più che nella condivisione di principi e di valori ispirati a forme elevate di costituzionalismo democratico puro, si è tradotto, e continua a tradursi, in un innegabile vantaggio di carattere economico, specie nei termini ristretti e immediati dell’acquisizione di risorse utili a favorirne lo sviluppo e la crescita.

Stando così le cose, ed è quasi innegabile che stiano così, vogliamo davvero riconoscere ai Paesi dell’Est un qualunque ruolo nel processo di rafforzamento e di (ri-)costruzione europea e nella resistenza oppositiva a Vladimir Putin? Siamo davvero sicuri che la “forza delle armi” (e l’interrogativo valga per tutti i leader “in campo” nell’attuale contesto bellico, da Vladimir Putin a Volodymyr Zelensky e a quanti, in Occidente, si interessino di partecipare “per procura” quasi a voler esprimere dinanzi al mondo un centralismo drasticamente smarrito negli anni del post “Guerra Fredda”) – per impiegare le parole del filosofo John Locke – possa coincidere, nel medio e lungo termine, con il “consenso del popolo” privato della propria terra e delle proprie case? La risposta è, come sempre, lapalissianamente conseguente, e nemmeno necessita di chiarimenti ulteriori. L’errore sul quale si continua a inciampare del tutto incuranti degli insegnamenti della Storia passata e recente è quello di pretendere di ricondurre lo scontro russo-ucraino nell’alveo contrappositivo ideologico tra una forma avanzata di atlantismo liberista (anacronistico se rapportato alle trasformazioni sociali contemporanee) e una, altrettanto dirompente, di socialismo rivoluzionario (soppiantato all’attualità dal nazionalismo militaristico della nuova era putiniana) che né gli Stati Uniti né la Russia sono oggi in grado di personificare.

È forse giunto il momento di ridisegnare le “aree di influenza” del mondo che il processo di globalizzazione ha contribuito a rendere fluide e incerte relegando l’Europa a un ruolo marginale sul piano economico ma strategico su quello militaristico. Per questa ragione la stessa Unione, lungi dall’abbracciare acriticamente politiche espansionistiche idonee a turbare il già delicato equilibrio internazionale, dovrebbe iniziare a ragionare e agire in via autonoma, guardando il proprio interesse specifico al di là e oltre ogni ispirazione filo - atlantista o filo – moscovita, nella consapevolezza di essere “altro”, tanto dall’una quanto dall’altra. Detto altrimenti, il vero problema del contesto geopolitico contingente è costituito dalla mancanza di alternative utili ai due modelli tradizionali: circostanza quest’ultima che, se per un verso, ha consentito alla Cina di imporsi sui mercati internazionali attraendone gli interessi, per altro verso, ha finito con il relegare l’Europa a una pura e semplice appendice di collegamento tra due “mondi” contrapposti.

Le relazioni della Russia con gli Stati Uniti da una parte e con l’Unione Europea dall’altra sembrano aver raggiunto la fase più critica dalla fine della Guerra Fredda per due ordini di ragioni. La prima riconducibile a un rapporto di dipendenza energetica che con il trascorrere degli anni ha garantito a Mosca una certa stabilità politica. La seconda riconducibile all’incapacità del mondo occidentale (se ancora vogliamo avvalerci in termini linguistici di questa contrapposizione) di elaborare strategie relazionali accettabili con la Russia idonee a garantire non solo una collaborazione stabile finalizzata al contrasto del terrorismo dilagante, ma anche a contenere la tentazione, sempre presente e imperante, di affiliare le repubbliche ex sovietiche alla comunità euro-atlantica. Ancora una volta occorre decidere, e una volta per tutte, da che parte stare. Ancora una volta si tratta di comprendere quali potenzialità abbia il “centralismo” europeo e se lo stesso possa sopravvivere in via autonoma nel contesto che vede a tutt’oggi contrapposti, e del tutto anacronisticamente, due blocchi: quello occidentale e quello orientale. Siamo punto e a capo.

Giuseppina Di Salvatore

(Avvocato – Nuoro)

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