Il viso tutto sardo è racchiuso nell’icona gentile dell’ortodossia russa. Una barba soffusa, con una punta rotondeggiante solo accennata, circonda l’immagine di Giovanni Guaita, sacerdote sardo in terra di Russia. Da Piazza Sella, nella sua antica Villa Ecclesiae, la moderna Iglesias, alla Piazza Rossa nel cuore di Mosca, il passo è lungo 36 anni. Tutti trascorsi a cavallo tra la perestrojka di Michail Sergeevič Gorbačëv e l’irruzione di Vladimir Putin nella terra d’Ucraina. Lui, il sacerdote ortodosso, quando risponde al telefono nella “sua” chiesa russa, dedicata ai Santi Cosma e Damiano, sfoggia la padronanza di una lingua diventata madre.

Sardo universale

Un sardo tutto d’un pezzo che all’età di 18 anni lascia le viuzze del centro storico della sua città natale per inseguire il sogno di una vita fatta di letteratura e lingue. Un uomo universale, aperto alle culture del mondo, alle diversità e al rispetto del prossimo in ogni latitudine. Rigoroso nel suo Cristianesimo, proteso agli insegnamenti di fede, con l’innata avversione alle guerre e alla violenza. Tre anni fa, quando 200 giovani fuggivano a gambe levate dalle truppe speciali antisommossa di Putin, non esitò a spalancare le porte della sua chiesa, la più vicina alla Piazza Rossa. Ha sposato l’ortodossia, la “corretta opinione”, come la traduzione greca definisce l’incedere di Cristo in terra di Russia.

Mai conniventi

Eppure da quel maledetto 24 febbraio scorso, quando lo Zar ha annunciato quella che, senza pudore per le parole, ha definito l’operazione speciale in terra d’Ucraina, per Padre Giovanni Guaita non c’è stata mai esitazione: “Non condannare il male significa esserne conniventi”. Quando scandisce il richiamo alla “connivenza del silenzio con il male”, lo fa con la saggezza delle parole, sempre attente e posate, ma con la fermezza dell’uomo di Cristo, seppur in terra di Putin. Quando parla di quell’agitazione interiore di ogni uomo dinanzi a tanta violenza sa che non è facile, e tantomeno sicuro, farlo a viso aperto. Eppure lo fa, da sardo, con rispetto e senza timore, con la certezza che la ragione prima o poi dovrà prevalere. «Sono da questa parte solo geograficamente, nel senso che mi trovo qui da 36 anni e condivido in tutto le sorti del popolo russo. In questo caso, però, non per scelta. Nel senso che personalmente io e anche diverse altre persone, sia nella Chiesa che nella società russa, condanniamo i fatti che sono in corso in Ucraina». Parole forti, nette, che vanno lette e ascoltate pensando al fatto che chi le pronuncia vive a due passi dal Cremlino. Non esattamente al riparo da possibili conseguenze, di ogni genere.

Il coraggio della coscienza

Quando gli chiedo se è stato difficile assumere questa posizione, renderla pubblica addirittura con un appello firmato, farsi identificare come un sacerdote ortodosso senza remore nella coscienza e nello spirito, nemmeno un anelito di dubbio gli passa per l’anticamera del pensiero: «È stato naturale, anche in altre occasioni abbiamo espresso posizioni simili con un gruppo di sacerdoti. Si tratta, però, di un gruppo assolutamente limitato. Gli autori di questa lettera aperta si possono contare sulle dita di una sola mano e nel giro di due ore, però, è stata firmata da quasi 300 altri sacerdoti e diaconi. Questo ci dice che le posizioni sono anche molto diverse all'interno della Chiesa, come, ripeto, anche all'interno della società russa». La sua affermazione più netta in questa traversia umana dura e severa è scolpita sull’altare della coscienza: «Non condannare il male è come prenderne parte». Gli faccio notare che la posizione è senza fronzoli, diretta, netta e chiara. La sua reazione non tentenna: «Beh, sì, senza dubbio è una posizione scomoda e piuttosto difficile. Penso, però, che nella vita ci siano delle norme morali imprescindibili che non possono essere messe in discussione. Sono come dei cardini attorno ai quali, poi, ruota tutto il resto. La condanna di ogni violenza per un cristiano non è facoltativa, è qualcosa di essenziale. Certamente da questo punto di vista, un cristiano in generale, e comunque ancor di più, direi un sacerdote, un monaco, non può che condannare qualsiasi episodio di violenza». La riflessione è nella sostanza e nei modi. «Un altro discorso è capire cosa significa condannare, in quali maniere. Penso che, appunto, stare zitti in questo caso sia una sorte di connivenza con questa violenza. D'altra parte, però, parlando, bisogna farlo anche con intelligenza, perché in questo momento nel nostro Paese, cioè nella Federazione Russa, sono in vigore delle leggi che puniscono anche semplicemente, per esempio, l'utilizzo di alcune parole. Allora l'intelligenza sta nel fatto di fare un discorso chiaro, inequivocabile, evidente. Però, magari, evitando di infrangere una legge che, peraltro, si può non condividere, che si ritiene del tutto ingiusta e addirittura poco intelligente».

Non ho terrore

Giovanni Guaita è schietto, quasi “rassegnato” ad essere testimone sardo della coscienza russa, a prescindere da quei pericoli che incombono su chi non è allineato. Quando oso domandargli se ha paura, non si scompone e, con il candore della sincerità che gli è proprio, ammette: «Guardi, è una buona domanda. Non so la risposta, nel senso che non vivo nella paura e nel terrore. Questo no. Sono abbastanza tranquillo, però, questo non significa che escluda che possano essere prese delle misure di qualsiasi genere nei miei confronti, come sono state prese, per esempio, nei confronti di un altro sacerdote che, per avere in una predica parlato apertamente della pace, è stato denunciato, processato, condannato e multato. Questo è avvenuto un paio di settimane fa. Dunque non posso escludere che questo possa succedere. Nessuno di noi lo può escludere».

I rischi dichiarati

In questo scenario di guerra ci sono le insidie innominabili e i pericoli dichiarati: «Esistono rischi di vario genere, di carattere amministrativo e sanzioni addirittura di carattere penale. Perché dopo la prima multa, diciamo così, amministrativa, cioè denaro da pagare, c’è una seconda condanna, che significa, invece, un procedimento penale, cosa ben più seria. Ci sono, poi, altri altri tipi di condanne, per esempio, la confisca dei beni materiali degli immobili. Nel mio caso, diciamo di uno straniero, ci può essere il fatto di essere rimpatriato. Tutti questi rischi esistono e non posso escludere niente. D'altra parte, però, la mia coscienza mi dice di dover, comunque, esprimere in maniera abbastanza chiara la mia posizione e cerco di farlo».

“Zone” sensibili

Quando definiamo le “zone” sensibili della riflessione sarda in terra russa, sono consapevole che non si può osare sul tema delle responsabilità di questa guerra. Lui, però, il Sacerdote ortodosso d’Iglesias a Mosca, non cede di un millimetro sulla linea maestra della coscienza: «Mi pare che le responsabilità, se così si può dire, da parte del governo della Federazione Russa siano davanti agli occhi di tutti e su questo punto non ritorno. Semplicemente per il fatto che mi paiono abbastanza evidenti. Direi, però, che non sono le uniche. Su questo è importante essere obiettivi e molto chiari. Il giovane governo ucraino, che ha fatto una scelta in favore dell'Occidente qualche anno fa, probabilmente non è stato ben consigliato dagli alleati, cioè dagli Stati Uniti d'America e dalla stessa Comunità Europea. Faccio un solo esempio, in Ucraina si parla in russo molto di più che l'ucraino, cioè tutti gli ucraini parlano la lingua russa, non tutti parlano l'ucraino. Ci sono zone e città dove si parla praticamente quasi esclusivamente russo, per esempio Kharkov, oppure Odessa e il Donbass. La lingua comune di tutti gli ucraini, per quanto questo possa sembrare paradossale, è il russo. Allora perché approvare delle leggi che vietano l'uso della lingua russa? Certamente mi sembra una scelta molto miope. Il fatto di vietare la lingua russa non è stato un elemento di distensione. Al contrario è stato, come dire, un pretesto, per una critica molto seria. Certamente, però, questo non giustifica un'invasione militare, senza alcun dubbio. Sono due cose del tutto diverse».

Confini & responsabilità

Il confine certo delle responsabilità, però, vacilla dinanzi a scarsa lungimiranza e miopia: «Direi, però, che da questo punto di vista il governo ucraino, e soprattutto i suoi alleati occidentali, non hanno fatto una politica molto lungimirante. Capisco la reazione emotiva di un'Europa occidentale che si può sentire minacciata da questo “orso” russo, però, non è giusto attribuire a tutto un popolo le responsabilità di chi lo governa».

No alle armi

Il tempo stringe, la conversazione si fa serrata, dal suo “No” alla corsa alle armi, alla speranza di un incontro tra Papa Francesco e il Patriarca russo Kirill, alle invasive basi militari in Sardegna e la grande regia mondiale della guerra. Sino alla sua amata terra sarda: «Non ritorno spesso come vorrei, per varie ragioni sono molto occupato. Oltre alla Chiesa, la comunità in cui celebro, mi occupo anche di un hospice per bambini terminali. Seguo un progetto di reinserimento di barboni senza tetto. Insegno all’Università, scrivo molto e sono piuttosto occupato, però, devo dire di essere rimasto iglesiente e sardo fino in fondo».

No, sono Sardo

Nel suo ultimo libro, «Un Monaco in quarantena» racconta la sua vita nel Covid. L’incipit è autobiografico: «Sono un monaco della Chiesa ortodossa russa. Sono, però, italiano. Poi, però, c'è un punto e subito dopo dico: No, sono Sardo».

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