Narrazione dopo narrazione, quella sul conflitto russo-ucraino pare essere divenuta una verità spuria dai contorni incerti. Che Volodymyr Zelensky, oramai calato nel suo ruolo da attore protagonista, paia aver scambiato l’Ucraina e quel che oggi di quella resta, o non resta, per un set cinematografico, potrebbe sembrare, agli occhi più critici, una tristissima verità difficile da ammettersi. Che l’insorgere del conflitto russo-ucraino (al quale il nostro “insipido” Governo arcobaleno ha ritenuto di dover aderire in difesa di principi democratici che per primo dovrebbe impegnarsi a recuperare) abbia favorito l’aumento patologico dei prezzi, già caratterizzati da una fortissima pressione speculativa, non pare possa essere revocato in dubbio. Che fin dal primo giorno di conflitto si sia venuto a determinare un “pensiero uni-direzionale imposto”, articolato secondo la logica contrappositoria del buono/cattivo a prescindere, con la pretesa, financo ridicola nella drammaticità dei suoi effetti, di arroccarsi dalla parte dei pretesi giusti, è parimenti circostanza dimostrata dall’evolversi degli eventi nel contesto dei quali l’espressione, anche motivata, di una opinione differente, viene rappresentata come “adesione criminale” alle ragioni di colui che, per non si sa bene quale motivo, qualcuno (forse troppo consapevole, al contrario, della propria inconsistenza, altrimenti non si spiegherebbe) ama definire Zar.

Insomma, il sostegno incondizionato prestato dall’Occidentalismo “Atlantista” all’Ucraina (formalmente Paese terzo, al pari della Federazione Russa, rispetto al Vecchio Continente) sull’assunto per alcuni versi deformante e deformato che la difesa di quei confini rappresenti la difesa dei nostri stessi confini, appare piuttosto singolare, siccome, e peraltro, offerto nell’assenza di qualsivoglia contestuale intervento utile a porre un argine concreto alla speculazione ad esso riconnessa i cui effetti devastanti si stanno già riverberando a livello nazionale interno dei Paesi in vario modo coinvolti nelle operazioni militari, colpendo in maniera irrimediabile le rispettive popolazioni, e più in generale si stanno riverberando a livello globale.

Così come piuttosto singolare appare la critica pre-giudiziale nei confronti di chi richieda la sospensione immediata delle attività belliche, quasi a voler tacciare di filo-putinismo (che, diversamente da quanto a taluno faccia comodo ritenere, non è comunque una parolaccia), qualunque cittadino, opinionista, commentatore, o semplicemente scettico, che abbia l’ardire di manifestare una qualche perplessità sulla opportunità di uno schieramento ad oltranza che, a tutto voler concedere, ci qualifica nei termini spaventosi di Paese “co-belligerante”. Forse si ha davvero paura ad ammetterlo: ma stiamo affrontando in prima linea una “guerra di logoramento” che appare ben lontana dal trovare il suo epilogo e che sarà piuttosto complesso giustificare allorquando si arriverà al punto fatidico di non-ritorno, dal momento che l’idea di poter indebolire la Russia sul campo lasciando che sia il trascorrere del tempo a concludere una “mission impossible” che i possenti “Alleati” non possono o non vogliono concludere, appare in tutta la sua ingenua illusorietà. Senza considerare, inoltre, che l’unico processo di logoramento indiretto ma implacabile, è soprattutto quello patito dai cittadini dei Paesi aderenti, lasciati privi di strumenti efficaci di compensazione economica utili a rendere quanto meno accettabile lo schieramento a favore dell’Atlantismo e dei suoi ideali. Ridetto in soldoni: se il sostegno all’Ucraina deve tradursi nella incontrovertibile mortificazione economica degli italiani, dei tedeschi, dei francesi e degli europei tutti, così pure come degli africani, allora è chiaro che quel medesimo sostegno, per quando ideologicamente motivato (pure ammesso e concesso che lo sia), non può protrarsi all’infinito e non può continuare ad essere imposto.

Si tratta di puro e semplice istinto di sopravvivenza sul riflesso del quale, volenti o nolenti, può ben “saltare” quel che resta dell’ordine internazionale attualmente formalmente vigente nel pensiero dei suoi nostalgici sostenitori, ma sostanzialmente compromesso dall’avanzata di super potenze orientali in tutto e per tutto qualificate tanto sul piano economico quanto su quello sociale.

Le reti e le strutture mediante le quali l’America difendeva la propria influenza globale non paiono esistere più, e se ancora esistono, sono divenute inefficaci al punto tale da costringere Washington a condurre una “guerra a distanza e per procura” nella vigile attesa di un qualunque evento fortuito idoneo a costringere lo storico nemico alla resa.

È chiaro anche ai profani che la “guerra delle sanzioni” si è rivelata un fallimento, un meccanismo che ha condizionato e frammentato il fronte europeo, disunito per composizione, separatista e nazionalista di circostanza per ispirazione salvifica: il successo recentissimo di Marine Le Pen ne rappresenta l’emblematico epilogo politico idoneo a sovvertire non solo l’ordine politico interno francese ma anche, di conseguenza, quello internazionale ad esso riconnesso. Laddove non si fosse capito, il successo di Marine Le Pen è la risposta immediata dei francesi al viaggio di Emmanuel Macron in Ucraina in compagnia di Mario Draghi e di Olaf Scholz. E questo è solo l’inizio di un possibile riformismo geopolitico nel contesto del quale il “Mondo di Prima” si rivela del tutto incapace di interagire da protagonista siccome Russia e Cina, legate a doppio filo da una partnership strategica collaudata e silenziosa, tenuta insieme dall’obiettivo comune di erosione della potenza statunitense e di quel che resta di essa, hanno potuto promuovere nel tempo, quasi nell’indifferenza generale, l’avanzare costante di sistemi autocratici del tutto funzionali a garantire, nell’era della globalizzazione, l’accentramento del potere.

Intanto perché questa guerra, nonostante sia pesante ammetterlo, porterà dei cambiamenti irreversibili alla generale conformazione geopolitica dell’Europa, alla sua stessa architettura esistenzialistica, e, di conseguenza, al sistema internazionale tradizionalmente inteso nei suoi rapporti di forza. Quindi, perché ricostruire un’ipotesi di dialogo con la potenza russa ora come ora, appare estremamente difficile siccome la conquista, pure lenta, di parti del territorio ucraino da parte di Vladimir Putin, appare come la consacrazione del principio di “sacralità” di una operazione militare speciale che, malgrado tutto e tutti, sta portando i suoi risultati. Infine, perché il quesito di tutti i quesiti è uno e uno soltanto: come si presenterà agli occhi del Mondo la Russia di Vladimir Putin all’esito di questo conflitto che già rappresenta uno scacco matto all’occidentalismo atlantista e alle sue regole?

Mentre in Europa paiono affermarsi da tempo piccoli ma rumorosi movimenti secessionisti portatori di ispirazioni localistiche e indipendentistiche che il relativo benessere economico pareva aver sedato, o comunque contenuto, nel resto del Mondo parrebbe essersi diffusa, nella diversità, l’affermazione di autocrazie eterogenee del tutto disposte a fondersi in nome di un predominio agognato e atteso da tempo. E mentre ora, in Europa, quegli stessi localismi, proprio perché animati dal malessere economico diffuso, potrebbero di fatto insorgere, facendo deflagrare l’Unione dal suo interno scompensandone l’ordinamento politico ed economico, nel resto del mondo orientale, quelle autocrazie, divenute garanzie di forza, paiono rappresentare la “grammatica sperimentale” dei prossimi centri di poteri.

A tutto voler considerare, giunti a questo punto, sarebbe necessario ripensare al modus operandi finora utilizzato per gestire il conflitto e che evidentemente non sta portando gli effetti desiderati. Non pare potersi andare oltre.

Giuseppina Di Salvatore – avvocato, Nuoro

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