Nella Asl nella quale lavorava Paola Labriola, la psichiatra barese uccisa da un paziente con 57 coltellate il 4 ottobre del 2013, fu “sottovalutato il rischio di aggressioni al personale”. 

Lo scrivono i giudici del tribunale di Bari motivando la sentenza con la quale nell’aprile scorso è stato condannato l’ex direttore della Asl di Bari Domenico Colasanto alla pena di 3 anni e mezzo di reclusione. Le accuse sono omicidio colposo aggravato dalla violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro e omissione di atti d'ufficio. Secondo i giudici, Colasanto non avrebbe garantito la sicurezza nel Centro di salute mentale di via Tenente Casale, nel quartiere Libertà di Bari, anche per una "impostazione economicistica delle funzioni della sanità piegate alle esigenze del budget". 

Condannato alla pena di 3 anni di reclusione anche un altro imputato, l'ex funzionario Asl Alberto Gallo, ritenuto l'autore del falso Documento di valutazione dei rischi della struttura, compilato dopo l'omicidio e retrodatato "per coprire le sue mancanze" e "sviare le indagini". Quanto all’esecutore materiale del delitto, il 41enne Vincenzo Poliseno, sta scontando una condanna definitiva a 30 anni di reclusione.

“SICUREZZA SOTTOVALUTATA” – "La sottovalutazione del tema della sicurezza sul lavoro e la visione del criterio economico come guida principale dell'azione dei vertici dell'Asl - si legge nelle motivazioni della sentenza - ha determinato le scelte di Colasanto di non redigere il documento di valutazione dei rischi dei Centri di salute mentale e di non adottare adeguate misure prevenzionali, così creando le premesse per lasciare privo di adeguati presidi di sicurezza il Csm di via Casale, dove si è verificato il barbaro omicidio della dottoressa Labriola, che esercitava le sue funzioni con abnegazione in un Csm ad alto rischio di sicurezza".

Secondo i giudici, "vi è stata una sottovalutazione del rischio di aggressioni al personale, sia per l'adesione alle teorie basagliane contrarie alla militarizzazione dei Csm, sia per l'impostazione economicistica delle funzioni della sanità, piegate alle esigenze del budget, che denota la principale preoccupazione di molti manager pubblici della sanità, ossia l'equilibrio di bilancio, piuttosto che la tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori".

"OMICIDIO EVITABILE” – L'omicidio "era prevedibile ed evitabile adottando i rimedi e le cautele previsti dalla legge", dicono i giudici. In sostanza è stato un "crimine tristemente annunciato". 

"L'evento omicidiario - si scrive ancora nella sentenza di condanna di Colasanto - è stato favorito dalle condizioni di totale insicurezza in cui versava da tempo" la struttura. “La vittima non aveva possibilità di fuga, non vi erano nella stanza dispositivi sonori di allarme, il personale era tutto femminile, il videocitofono all'ingresso non era funzionante, la porta di ingresso era apribile dall'esterno con una semplice spinta".

"Pur essendo a conoscenza della situazione di pericolo e degli episodi di aggressione e minacce subite dal personale del centro", Colasanto "ha omesso consapevolmente di adottare i provvedimenti idonei per garantire la sicurezza". "La sua colpa - secondo i giudici - consiste nel non aver predisposto un servizio di vigilanza adeguato, vanamente richiesto a seguito del verificarsi di episodi di minacce e aggressioni al personale sanitario di quel Csm". All'ex dg, inoltre, i giudici non hanno concesso le attenuanti generiche per "l'atteggiamento processuale manifestato da Colasanto, che non ha inteso rivolgere parole di scusa per i famigliari delle vittime, né offrire alcun risarcimento, sia pure simbolico".

(Unioneonline/D)

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