Sono in corso accertamenti tecnici, presso l’Ospedale Cannizzaro di Catania, per stabilire se i resti rinvenuti a Zafferana Etnea, in una grotta in località Cassone, nella strada provinciale 92 che conduce all’Etna, appartengano o meno al giornalista Mauro De Mauro. Verrà effettuata una comparazione con Franca De Mauro, figlia del giornalista scomparso il 16 settembre 1970, per mano di Cosa Nostra.

Il cadavere nella grotta presentava una malformazione congenita al naso e alla bocca, proprio come il giornalista de L’Ora. Sarà l’esame del DNA a stabilire se si tratti del cronista rapito da tre uomini, una sera di cinquantuno anni fa, oppure no. Quei resti mortali calzavano un paio di pantaloni scuri e lunghi, una camicia chiara a righe, maglioncino in lana, cravatta nera, cappello di lana con un pon-pon, mantella in nylon color verde scuro e scarponcini Pivetta n. 41. C’erano anche delle monete in lire e un orologio Omega da polso con cinturino e un pettine di piccole dimensioni con una custodia che sembrerebbe in pelle. Ci sono alcuni dettagli che portano ad escludere l’ipotesi che quello possa essere il corpo di Mauro De Mauro, come per esempio le monete in lire risalenti al 1977, oppure una pagina del quotidiano La Sicilia del 1978. Le date di questi elementi non coincidono con la scomparsa del cronista, avvenuta nel 1970. Se non è De Mauro, a chi appartiene quel corpo?

Un’altra ipotesi riguarda Giuseppe Balsamo, l’usciere del tribunale di Catania scomparso con la sua moto Gilera il 20 giugno del 1978. Aveva 28 anni e viveva da solo. Ma sono tanti gli omicidi e le vittime di “lupara bianca” di quegli anni in Sicilia.

Tra le vittime c’è anche Giovanni Pollara, 33 anni, svanito nel nulla il 26 novembre del 1979. Mai più ritrovato. Era stata presentata denunciata dal fratello Salvatore, 49 anni, originario di Prizzi, ucciso brutalmente dalla mafia l’11 marzo del 1983 con due colpi di pistola “magnum” a pochi centimetri dal volto, in macchina. Salvatore Pollara era incensurato. Il sostituto procuratore dell’epoca lo ha definito “un delitto portato a termine con una professionalità impressionante”. Il nome di Salvatore era conosciuto alle cronache proprio perché legato alla misteriosa scomparsa del fratello Giovanni. Entrambi avevano lavorato per la stessa impresa, poi Giovanni aveva abbandonato l’attività. Per la scomparsa si era tenuto pure un processo in Corte d’Assise in cui erano stati chiesti due ergastoli ma che si era chiuso con l’assoluzione dei due imputati. Quando Salvatore Pollara raccontava ai giudici istruttori notizie e informazioni circa gli ultimi anni di vita del fratello Giovanni e aveva compreso che gli investigatori, per non fargli correre rischi, avevano utilizzato i suoi dati attribuendoli ad una fonte confidenziale, lui si era ribellato: “La fonte confidenziale sono io. Confermo tutto. Preferisco giocare a carte scoperte”.

I giornali dell’epoca parlavano di un “bidone”, uno sgarro, che Giovanni Pollara aveva inflitto “alla mafia della droga”, pagando quindi con la vita. Si sarebbe appropriato di 50 milioni del clan per poi depositarli in un istituto di credito della Capitale, aprendo un conto corrente a Roma poco prima di sparire. Di tutti quei soldi ne aveva ritirato subito 40 milioni non appena era rientrato a casa. Gli altri 10 li aveva girati alla moglie, tramite un assegno, dicendole che avrebbe potuto incassarli nell’ipotesi in cui gli fosse accaduto qualcosa di grave. In Corte d’Assise, Salvatore Pollara aveva parlato di tutte queste cose, indirizzando gli inquirenti e i magistrati verso una pista precisa che riguardava la misteriosa scomparsa del fratello Giovanni. Sempre nel processo in Corte d’Assise, Salvatore aveva dichiarato: “Sono il maggiore dei fratelli e verso Giovanni sentivo di avere una responsabilità morale. Avevo intuito che aveva imboccato una strada pericolosa. I suoi frequenti viaggi a Roma non mi convincevano affatto”. Quei resti rinvenuti in una grotta dell’Etna potrebbero essere i suoi?

Angelo Barraco

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