Se ne parla da diversi mesi, ma il rischio ricorrente di vedere tramutato in realtà il pericolo di ritrovarci tutti accomunati da una etichettatura uniforme e uniformante dei prodotti alimentari, accompagnata da un giudizio inesorabile di “valore” degli stessi, probabilmente sarebbe, e invero è, davvero troppo. Si è detto che una etichettatura di tal fatta dovrebbe aiutare i consumatori, guidandoli, nella scelta dei prodotti che intenderebbero acquistare attraverso l’indicazione visiva di una scala di ben cinque colori, graduati dal “verde” (indicatore di “cibo buono”), al “rosso” (segnalante un cibo “cattivo”), e passanti attraverso una colorazione verde più chiara, il giallo e l’arancione.

Traducendo il discorso in soldoni: l’Unione Europea vorrebbe che ci nutrissimo tenendo in considerazione, quasi fossimo dei robot, un punteggio non meglio precisato quale “frutto derivativo” di un algoritmo utile ad attribuire la colorazione giusta ad ogni alimento. A parte la circostanza, certamente tutt’altro che trascurabile, che sembrerebbe davvero trattarsi di un sistema di etichettatura fuorviante e discriminatorio, oltre che incompleto, come spesse volte segnalato dalla stessa Coldiretti; a parte, ancora, la circostanza che sembra, questo sistema, un modo poco ortodosso e in qualche maniera probabilmente confusorio, per escludere dal mercato prodotti alimentari italiani altamente competitivi e significativi sul piano della nostra tanto apprezzata dieta mediterranea; tutto quanto a parte, ma è davvero giusto cercare di imporre a chicchessia una determinata disciplina alimentare, condizionando il gusto, il piacere ed il sapore del consumatore finale, che si ritrova di fatto limitato, e non poco, in una scelta di gusto sol perché in Europa, ma invero in buona parte del mondo occidentale, vi sarebbe una alta percentuale di soggetti in sovrappeso?

Ma saremo o no liberi di concederci, quanto meno a tavola, quei piccoli piaceri quotidiani, apparentemente insignificanti ma necessari quando si voglia affrontare una quotidianità sempre più impegnativa e assorbente? Prima di “bandire” in qualsiasi modo dalle nostre tavole determinati prodotti alimentari, non sarebbe forse più opportuno premurarsi di “educare” il potenziale acquirente finale dei prodotti nel condurre una alimentazione sana e completa che, senza privazioni, ma attraverso la moderazione sapiente dei quantitativi di cibo da ingerirsi, possa imparare i segreti della buona alimentazione? 

Se il rischio da scongiurare fosse realmente l’obesità, la strada sarebbe quella della educazione alimentare e non invece quella della “cannibalizzazione dei prodotti”, e che prodotti aggiungiamo noi. In buona sostanza, secondo la scienza europea, sarebbero a rischio quasi tutti i “must” della dieta mediterranea. Roba da non credere. Anche perché, se davvero passasse questa linea, non solo si azzererebbero le “differenze” esistenti, sul piano della produzione dei prodotti alimentari, nei vari Paesi membri dell’Unione, ma si conferirebbero giudizi e punteggi in qualche maniera severi sugli alimenti che, siccome non accompagnati da opportune spiegazioni, potrebbero, soprattutto al momento delle esportazioni, essere erroneamente percepiti quali valutazioni incontrovertibili sulla pretesa salubrità o meno del prodotto. Paradossalmente, proprio l’Italia correrebbe il serio rischio di vedere riconosciuti ai propri cibi di eccellenza, punteggi impietosi. A voler pensare male, e spesso ci si azzecca come disse “Quel Famoso”, parrebbe (perché siamo sul piano delle pure ipotesi argomentative) quasi una pensata per vestire di legalità ciò che in realtà sembrerebbe apparire come quasi una forma di concorrenza sleale utile ad arginare lo “stra-potere” commerciale dei nostri prodotti di eccellenza rinomati e conosciuti nell’intero pianeta.

Intendiamoci: imparare a nutrirci con intelligenza è necessario, ma cercare di bandire dalle tavole alimenti notoriamente validi e sani sul piano dei nutrienti sembrerebbe scorretto e fuorviante, soprattutto laddove si vorrebbe, in realtà, vederci tutti omologati sol per azzerare una concorrenza percepita come qualcosa di scomodo dai potentati europei.

Quali sarebbero, in particolare, le basi scientifiche utili poste a sostegno di un giudizio di valore sui cibi italiani tanto impietoso? Che fine farebbero le nostre rinomate DOP e IGP? Ma abbiamo oppure no il sacrosanto diritto di tutelarle? Come potrebbe mai conciliarsi il Nutriscore con i presupposti attributivi di quelle denominazioni che sono esse stesse garanzia di eccellenza? L’Europa vorrebbe forse contraddire se stessa? Anni orsono, questa stessa Europa aveva la pretesa di farci sentire “uniti” nella “diversità” assicurandoci che l’“unità” non sarebbe mai stata da intendersi quale banale “omologazione”. Tuttavia, oggi, quel motto appare in tutta la sua inconsistenza pratica: questa è, o avrebbe la pretesa di essere, né più né meno, che l’Europa del buon governo politico (o almeno che tale avrebbe dovuto essere) del tutto pronta, diremmo, ad ispirare un equo (rispetto a chi?) e solidale (rispetto a cosa?) sviluppo economico. Ci chiediamo: si può essere veramente uniti nelle differenze? Perché, anche a tutto voler considerare, e anche a non voler essere necessariamente maliziosi, l’impressione che si parrebbe di poter ritrarre anche da questa questione alimentare è che l’intenzione delle Istituzioni Europee voglia necessariamente perseguire una sola ed unica traiettoria, apparentemente culturale, ma in realtà fortemente politica, consistente in un circuito di omologazione destinato a travolgerci tutti. Il dissenso da valore viene costantemente declassato ad incapacità. Ma questa tendenza forzosa all’assimilazione strumentale e strumentalizzante può oggi costituire elemento imprescindibile di governo dei popoli? La struttura europea può davvero pretendere di sostenersi sulla cancellazione delle diversità? Non sarebbe forse meglio continuare a guardare la realtà ammirandone e valorizzandone la diversità, la complessità e senza cercare di stringerla all’interno di schemi, anche nutrizionali, di carattere ideologico fuorviante solo per gestirne, limitandolo, il flusso e l’indotto economico? La risposta è chiaramente conseguente.

In parole povere verrebbe quasi da chiedersi: che senso vorrebbe avere la nostra permanenza in una Europa che vorremmo unita e solidale, se adesso, attraverso il Nutriscore, potremmo pure ritrovarci privati dei piaceri della tavola? Uniti nella diversità sempre, omologati anche no. Tuteliamo le nostre eccellenze alimentari, semmai consumiamole nutrendoci con giudizio per favorire una sana e completa alimentazione, incentivandola introducendo, magari nel contesto della formazione scolastica, un programma di insegnamento in tal senso. Educare e mai privare o peggio bandire. Certo è più difficile, ma sicuramente più corretto.

Giuseppina Di Salvatore

(Avvocato – Nuoro)

© Riproduzione riservata