Non chiamatelo processo, tecnicamente è un’Udienza Preliminare. L’oggetto del contendere, però, è molto più di un passaggio giudiziario preventivo. Le accuse, i poteri in campo, gli uomini sotto accusa, fanno della Camera di Consiglio presieduta dal Giudice Giuseppe Pintori una vera e propria kermesse d’alto rango militare e non solo. Non si può dire, ma per l’aula d’udienza numero uno del Tribunale di Cagliari passa la storia militare futura del Paese Italia. Prima di tutto i pesi e i contrappesi, quelli tra i vari organi dello Stato, Difesa e Giustizia, i suoi principi costituzionalmente riconosciuti e quelli sottaciuti ma da sempre in grado di dettare legge. In quei 13 faldoni dell’inchiesta portata avanti con un lavoro improbo dalla Procura di Cagliari e dal Pubblico Ministero Emanuele Secci, con un dispiegamento di energie e mezzi senza precedenti, non c’è solo il disastro “innominato” che ha travolto il paesaggio, l’ambiente e la natura di quel proscenio che fu incantato di Teulada.

Molto di più di un Processo

C’è molto di più. In realtà sino ad oggi questa storia è sempre stata sottotitolata per chi non vedeva e non voleva vedere. Ora, invece, Alessandra Tedde, Giudice per le Indagini Preliminari, lo ha scritto. E lo ha fatto con una chiarezza che mal si addice ad un tema da sempre riservato ai muri di gomma e ai silenzi di Stato. Le sue parole, vergate nell’ordinanza con la quale dispone l’imputazione del reato di “disastro innominato” per i vertici della Difesa italiana, in carica dal primo maggio 2010 al primo settembre del 2014, sono premessa e fulcro di quello che ancora non si può chiamare processo. In realtà, però, i riflettori silenziosi del Palazzo di via XX settembre, sede del ministero più armato, sono tutti proiettati sul Tribunale di Cagliari. In ballo c’è una “impunibilità” inviolabile, mai scritta in nessuna legge, ma applicata di fatto come un dogma di Stato. Una sorta di regia di Palazzo che ha messo a riparo Generali e vertici militari da ogni insidia giudiziaria, a partire da quelle che hanno riguardato l’ambiente e la salute, da quella dei militari sino ai civili, tutti coinvolti in vicende che hanno mostrato il volto più negazionista dello Stato. Il cuore dell’inchiesta mette spalle al muro l’atavica regola delle segrete stanze: “non si può dire”. A pagina sedici dell’ordinanza del Giudice per le Indagini Preliminari si affronta la posizione dei Generali indagati: «Nel caso di specie, stando alle dichiarazioni rese dagli Ufficiali di più alto grado dell’Esercito, ivi compresi taluni degli odierni indagati, la condotta in contestazione, l'utilizzo della penisola (Delta) con modalità e risvolti esplicitati, sarebbe stata posta in essere per poter dare adeguata risposta agli impegni militari assunti nel contesto internazionale inerenti la presenza delle Forze italiane su vari teatri di guerra». La plateale giustificazione della devastazione di quel lembo di “rara bellezza” come la costa di Teulada per adempiere ad una missione “superiore” è già di per se una palese forzatura, utilizzata come scusa per proteggere ogni genere di abuso e sopruso in terra sarda. E, infatti, il Giudice lo scrive con chiarezza: «Ora, anche assumendo l'esistenza della norma ovvero dell'ordine che imponessero l'utilizzo della Penisola Delta come bersaglio di ogni sistema d’arma da impiegarsi per l'addestramento dei militari (e anche dando per acquisito il dato, anch'esso in verità rimasto indimostrato, che non vi fossero alternative possibili all'impiego del sito in questione comportanti un minor sacrificio sui beni oggetto di tutela, come per esempio aree non attigue ad abitati o a pascoli del bestiame), ciò non implica che lo svolgimento delle attività dovesse essere esente da ogni regola e norma di precauzione, attenzione e cautela, ovvero che, dopo il suo utilizzo, la zona non dovesse essere poi fatta oggetto di bonifica». Il concetto espresso dal Giudice è fin troppo chiaro: se avevate la missione di esercitarvi questo non poteva certamente contemplare la devastazione dell’ambiente tout court.

Impunibilità invocata

È qui il tema nevralgico del “processo” evocato dal Gip: «Nella fattispecie, invero, non può e non deve porsi una questione di prevalenza di uno degli interessi sull'altro (quello sotteso alla norma che impone l'adempimento rispetto a quello che è tutelato dalla norma penale) che è quanto costituisce il fondamento della scriminante invocata, giacchè nulla porta a ritenere che i valori protetti dalla fattispecie criminosa dovessero necessariamente essere sacrificati fino a loro totale compromissione, per consentire lo svolgimento delle note attività addestrative del personale militare, che infatti avrebbe potuto eseguirsi, ma con diverse modalità». Insomma, potevate esercitarvi, ma non potevate e non dovevate demolire a colpi di bombe, missili, mortai, razzi e quant’altro un ben di Dio come quel tratto di costa, incastonato tra le meravigliose dune illibate di Porto Pino. E nessuno dica che tanto quella penisola era “interdetta”, perché questo, secondo il Giudice, «implica già il riconoscimento della volontarietà della condotta criminosa, per altro verso non è nel caso ravvisabile alcuna consuetudine giuridicamente valida, né essa potrebbe spiegare alcuna efficacia esimente». Tremano, dunque, le certezze dei vertici militari. Quello che hanno sempre considerato “impunibile”, e nemmeno perseguibile, ora è davanti ad un Giudice, Giuseppe Pintori, che ha sulle spalle il peso di uno scontro titanico, quello tra le leggi scritte e quelle del potere consolidato, quello trasversale e silenzioso che da sempre attraversa i gangli dello Stato, soprattutto quando si parla di Difesa, di armi, di affari legati al sistema militare capace di condizionare, da sempre, politica e istituzioni.

Trema il gotha

E che la partita sia dirompente lo si capisce dai nomi che risuonano ancora a bassa voce nei media nazionali e internazionali. A Cagliari, infatti, sotto accusa ci sono personaggi di primo piano internazionale, con implicazioni legate agli assetti di guerra in Ucraina e, soprattutto, alla geopolitica militare, da quella degli affari bellici agli assetti del gotha europeo. Tra tutti c’è Claudio Graziano, chiamato a rispondere di “disastro innominato” nel proscenio di Teulada, per essere stato dal 2011 al 2015 Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, ovvero uno che, secondo quanto scrive il Giudice, era in grado di decidere.

Il più potente di tutti

È lui che copre l’arco temporale più ampio di quello sotto inchiesta. Ed è lui il più potente di tutti. Dal 2018, infatti, Graziano, dopo l’incarico di Capo di Stato Maggiore della Difesa, in pratica tutte le armi sotto la sua guida, è assunto al ruolo di Presidente del Comitato militare dell’Unione Europea, il massimo organismo militare. Una casella ritenuta nel 2018 marginale nello scacchiere europeo, una di quelle considerate di second’ordine, visto che ogni Stato, voleva mantenere saldamente in mano il controllo della propria Difesa. Tutto sino a quel maledetto 24 febbraio scorso, quando, con l’inizio della guerra in Ucraina, la storia ha repentinamente cambiato strada. L’Europa, spiazzata dall’incedere verso Occidente dei vecchi carri armati russi, ha dovuto ripensare la propria strategia, sino a dispiegare per la prima volta una forza d’intervento, o meglio di cuscinetto, di 5 mila uomini alle soglie della Polonia e dintorni. A guidare questo assetto militare europeo, ancora embrionale, però, è capitato proprio Claudio Graziano, il Generale italiano accusato a Cagliari di aver provocato, insieme ad altri 4 colleghi, quel disastro “innominato” nel proscenio di Teulada. Il passaggio giudiziario sardo non è, dunque, di poco conto anche perché nella partita degli assetti europei quella casella, ora, è diventata strategica, per affari di guerra e per l’industria bellica, a partire dalla costituzione di un vero e proprio arsenale in capo a Bruxelles. I produttori di armi, i governi, le lobby sanno che tutto questo è potere, da gestire e controllare. Per questo motivo è Draghi in persona, attento come non mai agli assetti europei, dopo l’endorsement di ieri di John Biden in persona che lo vorrebbe a capo della strategia europea, a tenere sulla propria scrivania, quella più riservata, il nome di Claudio Graziano. Il 16 maggio prossimo, infatti, l’assemblea dei soci della potentissima Fincantieri, la fabbrica di navi da guerra di Stato, dovrebbe designare come presidente proprio Claudio Graziano, che lascerebbe, dunque, la casella italiana in Europa. Il crocevia processuale cagliaritano è, dunque, in tutti i sensi una vera e propria trave posta di traverso su questo scacchiere militare e affaristico. In ballo, infatti, non c’è solo l’ennesimo Generale che lascia l’uso delle armi per andare a produrle, ma c’è persino una casella europea che l’Italia di Draghi perderebbe in Europa.

Draghi & boiardi

Di certo per l’Italia degli affari bellici l’occasione è ghiotta: mettere insieme la vocazione atlantica e l’industria bellica europea significa governare, attraverso Fincantieri, il processo “guerrafondaio” del secondo millennio. La figura di Claudio Graziano in questo scenario sarebbe quella più gradita sul versante “affaristico-statale”, anche se Draghi perderebbe uno dei posti chiave tra i “boiardi” europei. I “compagni” di viaggio giudiziario di Claudio Graziano non potevano avere collega più autorevole e potente al loro fianco. A Cagliari, dunque, nel Palazzo di Giustizia, si gioca una partita “esplosiva” per gli assetti non solo militari ed economici dell’industria bellica di Stato. In ballo c’è il primato del diritto, quello di processare i presunti colpevoli, di un disastro accertato e dichiarato, documentato e visibile a chiunque. Le norme, quelle scritte, penali e non solo, prevedono che chi distrugge l’ambiente e la natura, mette a rischio la vita e la salute degli uomini, deve essere perseguito e punito. Chiunque sia. Nel diritto italiano, sino a prova contraria, non sono previsti reati e colpevoli “impunibili”. Il dogma dell’impunità di Stato, per adesso, appartiene solo alle chiacchiere di Palazzo. Sino a prova contraria. Per adesso tutto rinviato al 10 giugno.

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