INVIATO
Senorbì. È tornato nel suo ambulatorio medico ancora claudicante, molto prima rispetto alla prescrizione dei colleghi dopo il grave incidente: «Sono ancora zoppo e dolorante cinque mesi dopo l’incontro ravvicinato con un camion, ma ho lasciato i miei pazienti senza assistenza per troppo tempo e poi con la crisi della medicina di base i sostituti erano costretti a fare i salti mortali. Sono contento di aver ripreso il mio posto di lavoro».
Piccolo riassunto. Diciotto giugno scorso, 8,30 del mattino: il dottor Pierluigi Congiu, 65 anni, stimato medico di base, arriva nell’ambulatorio in via Atzeni, pieno centro di Senorbì, appoggia la borsa con stetoscopio, ricettario, camice pulito e apparecchio per la misurare la pressione, e prende le chiavi per aprire il cancello d'ingresso. Poi il buio. «Mi sono ritrovato in un lettino di ospedale, circondato da colleghi preoccupati per mie condizioni: avevo contusioni e ferite dappertutto, un forte trauma cranico. Ho chiesto cosa fosse successo, non ricordavo nulla, non ricordo niente neanche adesso. Mi hanno detto che ero stato investito da un camion, che mi aveva trascinato per una decina di metri. L’autista era rimasto abbagliato dal sole e non mi ha visto. Sono vivo per miracolo».
Il recupero
Cinque mesi e mezzo dopo Pierluigi Congiu è riuscito a tornare dai suoi 1500 assistiti. «Probabilmente non recupererò mai al meglio, ho subìto due operazioni chirurgiche, sono rimasto a letto per due mesi, poi il resto in una clinica per la riabilitazione. A un certo punto non pensavo di poter tornare a camminare: sono molto felice».
Il ritorno
Felicità, lo stesso sentimento dei suoi pazienti, che il primo dicembre, il giorno della riapertura del suo studio, hanno fatto la fila per andare a salutarlo, chi con una forma di formaggio, chi con il pane fatto in casa, chi con una lettera di ringraziamento. «Sono io che ho ringraziato loro: mi chiamavano quando ero in ospedale, quando facevo fisioterapia, quando ero molto preoccupato per il mio futuro. Sono voluto tornare al lavoro prima rispetto alle indicazioni dei miei colleghi specialisti proprio perché non volevo lasciarli in difficoltà».Già, perché (anche) a Senorbì e dintorni i residenti hanno dovuto fare i conti con la mancanza di specialisti di base. Situazione già di per sè cronica in Sardegna (anzi, in Italia), ma aggravata in Trexenta perché ad avere un incidente stradale non è stato soltanto il dottor Congia: stessa sorte è capitata anche al collega Hourani Samih, anche lui costretto da un incidente a non lavorare per diverso tempo, ma fortunatamente nel suo caso le ferite che ha riportato erano meno importanti.
Il racconto
«È stato un periodo difficile - prosegue Pierluigi Congiu – tra l’altro io ero un paziente particolare, facevo le diagnosi a me stesso e a un certo punto ho pensato che non avrei più potuto camminare. Sono stati bravissimi gli specialisti, gli oss e i fisioterapisti del centro di Villamar che mi hanno rimesso in piedi. Mi hanno dimesso a fine novembre, pochi giorni dopo sono tornato al lavoro. Non so rimanere con le mani in mano e poi volevo prendermi cura dei miei pazienti come hanno fatto loro con me durante la malattia e la convalescenza».
Pierluigi Congiu lavora a Senorbì da vent’anni, assiste famiglie in tutta la Trexenta e in questo periodo è diventato per tanti non soltanto il medico, ma anche l’amico, il confidente, l’invitato speciale per battesimi, cresime e matrimoni. «Per me fare il medico di famiglia è una vocazione, ho preso la laurea per aiutare chi è in difficoltà. Dispiace che questa branca della professione sia così in crisi, i giovani la evitano, preferiscono altro. La situazione nel territorio è diventata insostenibile. L’errore è stato a monte, la facoltà di Medicina non doveva diventare a numero chiuso, c’era sempre stata una selezione naturale, vista la difficoltà del corso. Così oggi dall’università escono molti meno medici di quelli che servono alla sanità pubblica». Per fortuna ci sono ancora persone come Pierluigi Congiu, che, nonostante i problemi di deambulazione, torna in ambulatorio per non lasciare i suoi pazienti senza assistenza. Chiamatela coscienza o sacro amore per la medicina.
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