«Ho ricordi molto chiari. All’inizio, per qualche tempo, mi venivano a trovare sotto forma di incubi notturni, poi si sono sedimentati in maniera pacifica, come un bagaglio riposto in un angolo».
Tornando a quei momenti, cosa rammenta?
«L’acqua che sale da sotto i sedili e dai finestrini, il freddo pungente, la disperazione dei passeggeri, il sapore di carburante in bocca…».
Ha pensato al peggio?
«Ho pensato che sarei morto, con tutti gli altri. Ma sentivo anche di dover fare qualcosa, e capivo che non c’era tempo da perdere».
Qualcosa ha fatto, Marco Sulis. E a un quarto di secolo da quel giorno di febbraio, la sua storia e quella degli altri superstiti del Dornier viene ancora rievocata nelle trasmissioni del pomeriggio televisivo e nei documentari sui disastri aerei. Una di quelle storie che finiscono per entrare nella memoria collettiva e tanti, infatti, la ricorderanno.
Erano le 12,36 di giovedì 25 febbraio 1999 quando l’aereo Dornier della Minerva Airlines, partito da Cagliari, stava atterrando a Genova. Il velivolo uscì di pista, sfondò un muretto di cemento armato e finì in mare, inclinato col muso sul fondale di quattro metri e immerso fin sotto gli impennaggi di coda. Dei 31 passeggeri, undici furono i feriti gravi e quattro le vittime: l’ingegnere navale di Alghero Antonio Fonnesu, 35 anni; Giuseppina Floris, 72enne di Guspini (andava a Genova per far visita alla figlia Claretta, ricoverata in ospedale); la hostess Alessandra Brugnolo, padovana di 25 anni, e John Collier, ingegnere australiano di 55 anni.
Sulla tragedia fu aperta un’inchiesta per disastro aereo e omicidio colposo plurimo: venne indagato il comandante, Alessandro Del Bono, 35 anni, condannato nel novembre 2001 a 2 anni e 8 mesi e privato della licenza. Il Dornier 328 – che operava per conto di Alitalia - era un aereo capace di atterrare su piste corte, ma quel giorno di febbraio qualcosa andò storto. I passeggeri, nonché i testimoni che assistettero all’accaduto, raccontarono del velivolo che aveva toccato terra senza rallentare, finendo ad alta velocità contro il muretto a fondo pista e poi in acqua. L’accusa dimostrò che il disastro fu causato da un errore del pilota che arrivò «lungo» sulla pista senza riuscire a fermarsi.
In questa tragedia c’è stato un eroe, un ragazzo cagliaritano di 15 anni che riuscì ad aprire l’unico portellone d’emergenza rimasto, mettendo in salvo i passeggeri. Marco Sulis, studente del Nautico e atleta della squadra di nuoto della Sport Gest di Sestu, era diretto a Imperia con i compagni e l’allenatrice Alessandra Porcu per partecipare ai campionati giovanili. «Noi potemmo partecipare l’estate successiva», racconta.
Dopo quella esperienza ha gareggiato fino ai 18 anni e poi nei master per categorie d’età fino ai 30, mentre faceva l’allenatore di pallanuoto. Oggi è un uomo di 41 anni, ha una laurea in economia manageriale e un lavoro a Sassari, all’Inps, come consulente per le aziende. Ma per tutti resta l’eroe-ragazzino della tragedia del Dornier.
Quante interviste avrà fatto da quel giorno di 26 anni fa?
«Tantissime, ho perso il conto. Giornali e televisione rievocano ancora quel disastro. Fino a un paio di anni fa ho sempre risposto, anche partecipando a qualche trasmissione televisiva, poi, soprattutto per impegni di lavoro, non più».
È stato difficile gestire la popolarità?
«Ero piccolo e all’inizio sì, è stato qualcosa di estraniante. Ricordo lo choc che provai quando, il giorno dopo l’accaduto, vidi la mia foto sulla prima pagina della Gazzetta dello Sport. Crescendo, la pressione è diventata ovviamente minore ed è stato più facile».
Le capita di ripensare a quei momenti?
«Sì, ho ricordi molto nitidi. Fin dal momento dell’atterraggio…».
Racconti.
«Ho capito subito che qualcosa non andava, anche se quello era uno dei miei primi voli. C’erano rumori sinistri, l’aereo è uscito fuori pista, poi ha sfondato un muretto ed è finito in mare. È stato un boato fortissimo, come una bomba sotto il sedile. L’acqua ha cominciato a salire molto in fretta, entrava dai finestrini e dalla carlinga squarciata. C’era un silenzio tombale».
Nessun lamento?
«All’inizio no, si era tutti increduli. È durato pochi secondi, e a un certo punto le persone hanno cominciato a urlare, chi diceva facciamo la fine del topo, chi invocava la madre, chi pregava a voce alta, chi urlava non voglio morire».
E lei?
«Avevo paura di morire, come tutti gli altri. Mi sembrava di essere dentro un sogno ma sentivo l’adrenalina in corpo, una sensazione strana che mi spingeva a reagire. Mi dicevo: sono tutti adulti, perché non fanno qualcosa?».
I suoi compagni erano nei sedili vicini?
«No, eravamo tutti sparpagliati. Io ero nei sedili centrali, dall’altra parte del portellone di emergenza, vicino all’istruttrice. Noi, certo, eravamo abituati a stare in acqua, ma non dentro quell’acqua buia».
Perché parla di acqua buia?
«Era scuro là dentro, e c’era un freddo pungente. Eravamo tutti infradiciati, con l’acqua al petto, che saliva. Mi sono levato il giubbotto perché ho pensato che mi avrebbe potuto trascinare a fondo».
Ha detto che sentiva l’adrenalina addosso.
«Ho pensato che dovevo fare qualcosa e che non c’era tempo da perdere. C’erano due portelloni, ma quello davanti, visto che l’aereo era inclinato, doveva essere inutilizzabile. Solo dopo l’arrivo dei soccorsi ho saputo che la hostess, Alessandra Brugnolo, era morta travolta dall’acqua nel tentativo di aprire una via di fuga. Restava dunque il secondo portellone. Io ero sulla stessa linea, nei sedili dall’altra parte. Ho pensato che potevamo salvarci uscendo da quel varco. Un uomo aveva avuto la stessa idea, ma non riusciva ad aprirlo».
Non c’era tempo da perdere…
«Ho provato io. Mi sono avvicinato, con l’acqua che saliva ancora e qualcosa che impediva il passaggio. Erano esplosi tutti i sistemi di sicurezza, c’erano cose che galleggiavano. Un sedile si era incuneato davanti al portellone. Ho spinto una, due tre volte. Ho pensato: e se non si apre? Dopo tre tentativi ci sono riuscito. Vedevo il cielo e mi scoppiava il cuore. Ho urlato: venite tutti qui, possiamo uscire».
Non è uscito per primo.
«Ho fatto passare tante persone. Davanti a quell’unica via di fuga, in breve si era creato un tappo, c’era la ressa. Ho cercato di fare del mio meglio per agevolare il passaggio in maniera ordinata, ma è stato davvero difficile perché c’era chi, per la disperazione, dava spintoni, e chi gomitate. Sono uscito quando è stato possibile».
I soccorsi erano già arrivati?
«Sono arrivati dopo qualche minuto: le ambulanze, la scialuppa dei vigili del fuoco, i sub dei carabinieri. Dovevano essere circa le 13. Sono uscito e mi guardavo intorno per cercare i miei compagni e l’istruttrice, che ho subito ritrovato, e per capire se ci fosse qualcuno in difficoltà: c’erano persone aggrappate alla parte finale della fusoliera, qualcuno aveva nuotato fino al molo che era vicinissimo, altri galleggiavano spaesati. Ricordo di aver bevuto l’acqua del porto di Genova, era nera e melmosa, sapeva di benzina».
Ha saputo subito dei morti?
«Quando siamo arrivati in ospedale. Che tra le vittime ci fosse anche la hostess l’avevo capito quando ancora eravamo là sotto. Era giovanissima».
I suoi genitori come hanno avuto la notizia?
«Nessuno li aveva avvisati. Mia madre ha visto lo speciale del Tg1 che diceva di un aereo partito da Cagliari caduto in mare a Genova. Mio padre l’ha saputo mentre era al lavoro. Hanno pensato che fossimo tutti morti. Dall’ospedale ci hanno messo in contatto un’ora dopo. Per mia madre fu come se stessi nascendo una seconda volta».
Quando ha capito che era diventato un eroe?
«Il giorno dopo. Un infermiere mi ha mostrato la prima pagina della Gazzetta dello Sport e mi ha detto: sei tu? C’era la mia foto».
La voce si era diffusa subito.
«Quando la polizia ci ha interrogato, un mio compagno di squadra ha detto: “Siamo riusciti a uscire grazie a Marco”. Mi chiesero conferma e ho raccontato com’era andata».
Ha ricevuto la medaglia d’oro al valor civile e poi diverse altre medaglie.
«Le ho conservate».
Un’esperienza così terribile non può non aver lasciato un segno nel cuore di un ragazzo.
«Mi chiede se ho riportato un trauma? No, ho deciso da subito di affrontare la paura. Ho continuato a fare le gare di nuoto e a viaggiare in aereo. Per qualche tempo ho avuto gli incubi, questo sì».
Cosa le ha lasciato quella giornata particolare?
«Mi ha fatto capire che nella vita non si deve mai dare nulla per scontato. E che bisogna reagire davanti alle difficoltà, sempre. Una lezione che non ho mai dimenticato».
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