Dalle prognosi alle diagnosi, dalla cura alla scelta: ma cos’è davvero il diritto alla vita? Proseguire un percorso che qualcuno definisce “infernale” o poter decidere consapevolmente di porre fine a una “non vita”? Di questo, dei numeri in Italia, e delle complesse implicazioni etiche, mediche e giuridiche che ne derivano, si è discusso ieri nella sala Atza dell’Ospedale Brotzu di Cagliari durante il convegno “RELIEF – Riflessioni Etiche nella Gestione del Fine Vita”.
Regione virtuosa
«Dal 2025 la Sardegna è la seconda regione in Italia ad aver approvato una legge sul fine vita – ha dichiarato Carla Fundoni, presidente commissione sanità - per colmare un vulnus rispetto alla sentenza 242 del 2019 che garantisce 4 criteri per il suicidio assistito». Dalla legge 219 del 2017 che introduce le Dat (disposizioni anticipate di trattamento), il quadro normativo sul fine vita si è via via arricchito di nuove sfumature e interpretazioni, ma resta ancora terreno di confronto tra diritto, etica e medicina.
«Oggi – ha spiegato Maurizio Mori, presidente della Consulta di Bioetica Onlus e Componente del Comitato Nazionale per la Bioetica – il salto tra la vita e la morte non è diretto, si può creare una “condizione infernale” in cui la persona soffre, senza la possibilità di superarla. L’accanimento terapeutico – aggiunge – è una tortura mascherata da bene. La grande svolta della legge 219 è l’introduzione del consenso informato: il rapporto medico-paziente non si fonda più sulla malattia, ma sulla volontà. È questo che cambia il paradigma».
I numeri
A riportare la questione sul piano medico e concreto è stato Mario Riccio, anestesista e rianimatore, noto per essere stato accanto e aver staccato la spina a Piergiorgio Welby. «In Italia manca ancora una riflessione della classe medica sul fine vita – ha spiegato -. La legge sulle Dat è un passo avanti, ma presenta molte lacune: i medici, spesso, non hanno linee guida chiare e finiscono per affrontare da soli decisioni enormi».
Riccio ha sottolineato come nei Paesi dove il suicidio assistito o l’eutanasia sono regolamentati, come la Spagna, le morti medicalmente assistite rappresentino tra il 4 e il 5% del totale. «Nel 2019 dissi alla Camera che se anche in Italia solo l’1% delle persone scegliesse questa via, parleremmo di circa 5.000 casi l’anno, su 600.000 morti complessive – ha aggiunto –, la stampa disse che era un’esagerazione. La settimana scorsa leggo su l’Avvenire che potremmo arrivare fino a 30mila morti».
Il dolore
Un commosso ricordo per Walter Piludu, che il 3 novembre 2016 ha potuto porre fine alla sua vita dopo 7 anni di sofferenze. «è importante ricordare che Piludu fissò una data, poi la rinviò – ricorda il sostituto procuratore Gilberto Ganassi -, perché voleva ancora un momento. Piludu si auspicava un silenzio operoso per un disegno di legge che purtroppo è caduto nel nulla».
Sul versante giuridico, il magistrato e consigliere di Stato Francesco Caringella ha evidenziato come il tema del fine vita rappresenti «il punto d’incontro, e spesso di scontro, tra diritto e medicina». «Non si tratta più solo di vita biologica, ma di un processo che può durare anni — spiega —. La legge 219/2017 e le Dat riconoscono il diritto all’autodeterminazione terapeutica, ma restano aperti scenari complessi: come intervenire quando il paziente non è in grado di esprimere una volontà chiara, o quando le dichiarazioni anticipate risultano incongrue rispetto al contesto clinico? In Italia la parola suicidio evoca l’immagine di una fine anticipata, una decisione presa in solitario. In alcuni casi si tratta di rinuncia alla ‘non’ vita, e deve essere vista con fine altruistico», conclude Caringella.
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