Sono passati esattamente 16 anni dal delitto di Cogne, uno degli omicidi più sconvolgenti e d'altissimo impatto mediatico della storia italiana recente.

Poco dopo le 8 del mattino del 30 geannio 2002, da un villino della cittadina ai piedi dei monti della Valle d'Aosta arriva una chiamata al 118. Un bimbo di appena tre anni - Samuele Lorenzi - "sta vomitando sangue".

A chiamare è la madre, Annamaria Franzoni.

Scattano i soccorsi, ma all'arrivo dei medici, il piccolo viene trovato senza vita.

Un malore? No. Un omicidio.

E l'indiziata numero uno sarà proprio la madre, nonostante la difesa provi sin da subito a ipotizzare l'azione di un fantomatico assassino, entrato nell'abitazione approfittando di qualche minuto d'assenza della donna, uscita per accompagnare il figlio più grande allo scuolabus.

Le perizie, però, certificheranno che l'omicida indossava il pigiama. Il piagiama della mamma. Il piagiama che un killer esterno non avrebbe mai avuto il tempo di indossare (e poi: perché?), prima di uccidere, toglierselo e poi fuggire.

Per settimane sotto i riflettori televisivi e davanti ai flash dei fotografi si consumano un'inchiesta e un processo coinvolgenti e sconvolgenti.

La prima sentenza, con rito abbreviato, arriva nel 2007: Annamaria Franzoni viene condannata a 30 anni.

Un anno dopo, la pena viene dimezzata in appello: 16 anni, poi confermati in Cassazione.

Quanto alla causa scatenante dell'omicidio, i giudici riconobbero sempre una sorta di "malessere" della mamma di Samuele. Una "nevrosi", che avrebbe preso il sopravvento su di lei, conducendola a uccidere il suo figlioletto, colpito più volte con un oggetto (mai ritrovato) contundente (uno zoccolo? un mestolo?).

Ora, Annamaria è uscita dal carcere. Dal 2015 le è stata concessa la detenzione domiciliare.

Non a Cogne, nel villino maledetto.

Con la famiglia, che non l'ha mai abbandonata, vive oggi in Emilia Romagna.

(Unioneonline/l.f.)

Gennaio 2018
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