Una vita sempre al limite, col piede costantemente pigiato sull'acceleratore, che poi chiede - inesorabilmente - il conto. Sono passati quattro anni dalla morte di Amy Winehouse, divenuta nel corso di una carriera tutto sommato breve icona di eccessi e delicatezza, interprete di una musica avvolta dal manto fumoso e retrò delle atmosfere soul degli anni Sessanta e del periodo d'oro della Motown, così come di tutto ciò che il suo mondo - assolutamente moderno - è riuscito a includere.

Perché alla fine, al di là della sua immagine "ribelle", della morte avvenuta a soli 27 anni nella sua casa di Camden, a Londra, in circostanze mai chiarite, quello che rimane è la sua musica, il suo modo - doloroso e franco - di affrontare il palco, il pubblico, le canzoni.

Per ricordarla, basta tirare fuori dalla copertina un suo disco (o magari entrambi i suoi album, "Frank" e "Back To Black"), sedersi e ascoltare, senza pensare al personaggio e al racconto che si è fatto di lei dopo la morte, agli abusi di alcol e droghe, ai disordini alimentari, alla sua vita. Basti la sua voce, il suo stile, la sua musica, "l'unica cosa - come diceva - che riesco a fare bene".

(Redazione Online/m.c.)

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