L'Italia è il settimo Paese al mondo per pressione fiscale. Per essere chiari ogni 100 euro guadagnati, 42 vanno allo Stato. Peggio di noi fanno solo Francia, Danimarca, Belgio, Svezia, Finlandia e Austria, Paesi dove però il sistema pubblico mostra un'efficienza maggiore che in Italia. Nonostante questo, si è riaperto il dibattito sulla riforma del fisco, soprattutto dopo che Enrico Letta, segretario del Pd, ha proposto una tassazione ulteriore dei soggetti più abbienti, sulla scorta di quanto annunciato da Biden per far pagare i più ricchi (riportando la tassazione sostanzialmente all'era pre-Trump).

La proposta va analizzata però alla luce delle caratteristiche del sistema fiscale americano e di quello italiano che, superato ciò che emerge (il 42% di pressione fiscale per tutti, cosa non vera fino in fondo perché in realtà solo una parte viene tartassata) mostra curiose anomalie. A iniziare dal fatto che pochi pagano le tasse e quei pochi che le pagano, versano al fisco molto più del 42% e molto di più di quello che hanno in cambio. Non solo. Per restare all'esempio Usa, come ha scritto anche l'Istituto Bruno Leoni diretto da Alberto Mingardi, Biden vorrebbe aumentare l'aliquota sulla fascia più alta di reddito (dai 518 mila dollari in su) portandola dal 37 al 39,6%. In Italia l'aliquota del 38% colpisce i redditi tra i 28 e i 55 mila euro (negli Usa per questi lo scaglione è al 22%), mentre chi va oltre i 75 mila euro versa allo Stato il 43%. Proviamo dunque a capire se il sistema italiano potrebbe sopportare un ulteriore carico fiscale con qualcuno che di tasse se ne intende e che, con i suoi report, fa chiarezza sul mondo delle entrate.

Alberto Brambilla, lombardo, 70 anni, presidente di Itinerari previdenziali, è stato consigliere della Presidenza del Consiglio dei ministri dal 2018 al 2020.

Professore, partiamo proprio dalla proposta Letta di istituire una nuova tassazione per i più ricchi, con un ulteriore prelievo sulla tassa di successione?

«Intanto, vorrei dire che la proposta non è così chiara, perché non si capisce se si vuole aumentare la tassazione per i redditi sopra il milione di euro, per ogni singolo erede... La proposta è indefinita. Quello che sconcerta è che una boutade di questo genere ha bisogno di approfondimenti tecnici importanti. Non la si può buttare lì tanto per dire, altrimenti si creano solo problemi con discussioni molto divisive e poco efficaci. Bisognerebbe avere idee più chiare sulle quali far confrontare gli esperti».

In ogni caso il concetto è aggiungere una nuova tassa per i più abbienti, ma siamo già il settimo Paese al mondo per pressione fiscale.

«Siamo il settimo Stato al mondo in questa classifica ma non anche in quella dell'efficienza. Al prelievo fiscale, gli americani ne hanno fatto un dogma, dovrebbero corrispondere anche servizi efficienti. Invece, siamo il primo Paese in Europa per evasione fiscale. Per quella parte di persone che si dà da fare e ha un reddito sopra i 35 mila euro all'anno la fiscalità è pesante».

Il nostro sistema è progressivo e dovrebbe garantire equità fiscale…

«In realtà, abbiamo una tripla progressività. La prima è normale: più uno guadagna e più paga, perché se guadagno diecimila e l'aliquota è al 20%, pago duemila euro, se guadagno ventimila, ne pago quattromila. E fin qui va bene. La seconda progressività è data dall'aumento dell'aliquota, che cresce con l'aumento del reddito passando dal 27% al 38% e così via. La terza, infine, è occulta, perché con l'aumentare del reddito diminuiscono fino a sparire le deduzioni, di fatto incentivando l'elusione fiscale. Oltre i 40 mila euro di reddito spariscono i bonus per l'elettricità, il gas, la baby sitter, il bonus bebé».

E questo secondo lei non assicura equità?

«Se si analizzano i dati, come abbiamo fatto noi di Itinerari previdenziali, si scopre però che il 60% della popolazione paga meno del 9% dell'Irpef totale. Non solo. I contributi sociali sono parametrati sul reddito, quindi meno si guadagna e meno si paga. Per esempio, su 16 milioni di pensionati, 8 milioni sono totalmente assistiti. E inoltre, per garantire l'assistenza sanitaria a quel 60% che paga solo il 9% di Irpef bisogna mettere sul piatto 50 miliardi di euro, garantiti per lo più dal restante 40% della popolazione. La redistribuzione tanto desiderata da certa sinistra già oggi per sanità, assistenza sociale e scuola, vale 175 miliardi, cioè l'intero gettito Irpef. Quindi il mio punto di vista è che il 60% della popolazione non può non avere un reddito sufficiente come invece dichiara».

Sta dicendo che l'evasione o l'elusione fiscale in Italia è troppo alta?

«Dico che in Danimarca vivono circa nove milioni di persone, quante in Lombardia, sono più efficienti e frugali e pagano le tasse. Da noi c'è una buona efficienza del welfare ma con il 160% del debito pubblico sul Pil. Occorre una svolta culturale e di consapevolezza. Il cittadino deve sapere che se la sanità costa pro capite 1860 euro l'anno per una famiglia di tre persone che ha pagato 500 euro di Irpef in dodici mesi (come accade per il 60% dei dichiaranti), significa che lo Stato ha speso tre volte tanto per assicurargli l'assistenza. E quei soldi sono versati dal 40% della popolazione che paga le tasse e assicura il gettito anche per gli altri».

In sostanza, in Italia una minoranza paga tutto: secondo i vostri studi, chi guadagna dai 100 mila euro in su, appena l'1,22% della popolazione, versa il 20% circa del totale dell'Irpef, mentre il 44% dei contribuenti paga appena il 2,4% del totale dell'Imposta sulle persone fisiche.

«Una parte consistente degli esperti sentiti dalla Commissione Marattin sulla scorta delle informazioni dell'Agenzia delle entrate, ha sostenuto che in media gli italiani pagano 5.550 euro di tasse. I numeri espressi così non hanno senso: diciamo che il 60% paga 15 miliardi di Irpef, che diviso 24 milioni di dichiaranti cui corrispondono 36 milioni di abitanti fanno 625 euro, che diventano 416 se rapportati agli abitanti, mentre il 13% paga quasi il 60%. Detto così rende meglio la realtà».

Con una Flat Tax, si arriverebbe all'obiettivo di pagare meno ma pagare tutti?

«La Flat Tax è adottata da pochissimi Paesi al mondo e soprattutto da quelli con un basso livello di Welfare. Secondo me il discorso da fare è questo: se io non verso oltre un certo tanto allo Stato, ma allo stesso tempo non posso dedurre, sarò così diligente da pagare veramente l'Iva e le tasse? A mio parere si corre il rischio di rendere più forte il sommerso. E poi la tassazione unica non può essere applicata solo ai liberi professionisti ma anche ai dipendenti. Da noi è successo che, una volta ridotta la tassazione agli autonomi, molti pensionati hanno aperto la partita Iva perché pagano meno rispetto a quanto viene tassato il reddito da lavoro che fa cumulo con la pensione».

Come ridurre il carico fiscale per le famiglie dunque?

«Facciamo un esempio. In Italia ci sono 25 milioni di famiglie. Supponiamo che ognuna spenda 3-4 mila euro l'anno di lavori in casa, che spesso sono pagati in nero e realizzati da persone che non hanno una partita Iva oppure addirittura che percepiscono il reddito di cittadinanza. Se lo Stato assicurasse a ogni famiglia la possibilità di dedurre fino a 3.000 euro dalle tasse per i lavori fatti in casa, purché i lavori siano fatturati e i pagamenti tracciati, allora chi fa i lavori dovrebbe versare le tasse e i contributi su quanto ha fatto, e si potrebbero recuperare dai 10 ai 15 miliardi in più all'anno, allo stesso tempo riducendo le tasse alle famiglie».

La ricetta, dunque, è quella del contrasto tra chi paga e chi elude?

«Se si introducesse un contrasto di interessi, allora si arriverebbe ad allargare la base delle entrate e a quel punto si potrebbero ridurre le aliquote per tutti. Non solo. Si potrebbe aumentare l'Iva di qualche punto percentuale per ridurre così le aliquote Irpef».

Non sarebbe dannoso?

«Sarebbe certamente più equo, perché anche chi elude e non versa l'Irpef, paga l'Iva quando va a fare l'acquisto di un elettrodomestico oppure va al supermercato. L'Iva la pagano tutti è una componente ineludibile. In sostanza facciamo pagare qualcosa in più a quel 60% che versa meno Irpef, rispetto al 40% di popolazione che versa già abbastanza allo Stato».

Giuseppe Deiana

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