Viviamo nell’era dell’inclusione, in cui brand e personaggi pubblici sembrano fare a gara per promuovere e supportare politiche e iniziative legate alla diversità. Così le pubblicità calibrano con attenzione la presenza di donne e uomini di etnie differenti mentre sulle passerelle sfilano modelli e modelle di diverse età e taglie. Ma cosa resta dietro ai set pubblicitari o ai post sui social network? Siamo di fronte a sofisticate operazioni di marketing oppure esiste un impegno concreto per cambiare la società?

Anna Zinola, docente di Metodi di ricerca all’Università Cattolica di Milano, prova a rispondere a questi interrogativi nel suo ultimo saggio intitolato "Diverso da chi” (Egea, 2021, pp. 166, anche e-book). Lo fa attraverso numeri, storie e casi di cronaca con cui ripercorre la storia del concetto di inclusione nel mondo della comunicazione, raccontandone l’evoluzione in un percorso in bilico tra due estremi: da un lato la sua natura di strumento di marketing utilizzato per differenziarsi dai concorrenti – attirando e fidelizzando i cittadini-consumatori – dall’altro lato l’aspirazione a migliorare concretamente la realtà che ci circonda.

Per entrare nelle tematiche trattate nel saggio ad Anna Zinola chiediamo di spiegarci prima di tutto la differenza tra due termini spesso usati come sinonimi ma che sinonimi non sono: inclusione e integrazione.

“Sono due concetti che spesso vengono sovrapposti ma, in realtà, sono molto diversi. La parola ‘inclusione’ indica, letteralmente, l’atto di inserire, di comprendere un elemento all’interno di un gruppo o di un insieme. Significa appartenere a qualcosa - sia esso una comunità di persone o un’istituzione - e sentirsi accolti. L’inclusione è un processo: guarda a tutti i soggetti coinvolti e a tutte le loro potenzialità. Interviene prima sul contesto, poi sul soggetto. L’integrazione è una situazione: ha un approccio compensatorio. Interviene prima sul singolo soggetto e poi sul contesto”.

La copertina del libro
La copertina del libro
La copertina del libro

Può farci un esempio?

“Pensiamo alle persone con disabilità. Operare in una logica di integrazione significa porre, in una scuola o in un ufficio, una rampa in un accesso secondario per consentire l’ingresso a chi ha ridotta capacità motoria. In questo modo si garantisce a tutti il diritto entrare ma le persone con disabilità motoria devono entrare da un ingresso secondario. Operare in una logica di inclusione significa modificare l’ingresso principale per rendere l'accesso possibile in egual misura a tutti”.

Perché oggi l'inclusione è uno dei temi caldi del mondo aziendale?

“Direi, piuttosto, che l’inclusione è uno dei temi caldi della nostra società. Se ne parla online, sulle testate di informazione e sui social media. È oggetto di dibattito politico e ci tocca quotidianamente a più livelli. Ci tocca come cittadini, quando i nostri figli si confrontano, a scuola, con bambini e ragazzi di etnie e culture diverse. Ci tocca come professionisti, quando, a un colloquio di lavoro, il selezionatore ci domanda – ma solo se siamo donne! – ‘vedo che ha 35 anni ed è sposata… ha intenzione di avere figli?’. E ci tocca come consumatori, quando andiamo a fare shopping e fatichiamo a trovare la giusta sfumatura di fondotinta per la nostra pelle o la taglia di jeans che si adatta alla nostra conformazione fisica”.

Cos'è il diversity marketing su cui oggi puntano tante aziende?

“Il diversity marketing indica un insieme di strategie e di contenuti che mirano a porre l’attenzione sulle diversità. Diversità che possono riguardare la religione, l’orientamento sessuale, l’età, l’etnia, il genere, lo status socio-economico, la disabilità. Si tratta, cioè, di parlare ai consumatori includendoli nella propria visione e nei propri valori, proponendo un’immagine che li rispecchi”.

Perché funziona?

“Il motivo è semplice: la paura dell’isolamento dal branco rappresenta una delle emozioni più ataviche e profonde che l’essere umano possa provare. Il bisogno di ‘sentirsi parte’ spinge spesso le persone a conformarsi alla maggioranza. Restano, tuttavia, gruppi e sotto-gruppi che sfuggono a un univoco inquadramento e che, in quanto minoranza, possono avere meno voce di altri. Il marketing inclusivo mira a coinvolgerli e a soddisfare i loro bisogni con prodotti, servizi, comunicazioni ad hoc”.

Ma le aziende credono davvero nell'inclusione oppure è solo business?

“Dipende. Alcune aziende attuano, al loro interno, delle politiche realmente inclusive, tanto da inserire una figura, il diversity manager, che ha proprio l’obiettivo di evitare ogni tipo di discriminazione. Per altre aziende, invece, è soprattutto (se non soltanto) un business: un modo per ampliare il bacino dei consumatori, allargarsi a nuovi segmenti. E, in questo modo, incrementare il fatturato. Si potrebbe obiettare che sono segmenti minoritari, le così dette nicchie del mercato, il cui impatto sulle vendite non è rilevante. In realtà, i numeri dicono l’opposto. Prendiamo il caso del make up maschile. Se consideriamo solo la fascia di età compresa tra i 15 e i 29 anni, che di fatto costituisce il core target, abbiamo oltre 6.2 milioni di potenziali consumatori. Ipotizzando una spesa media annuale pari a 50 euro e una quota di acquirenti pari al 5% del totale, si arriva a 15.5 milioni di euro”.

Alla fine, l'inclusione rimane solo una parola che funziona bene dal punto di vista comunicativo?

“Sicuramente lanciare un prodotto o una serie di prodotti inclusivi comporta – oltreché un potenziale vantaggio sul piano delle performance di business – un valore aggiunto in termini di immagine. Significa differenziarsi dai competitors con un posizionamento distintivo. Significa presidiare dei territori premianti, quali la capacità di ascolto, l’impegno e l’apertura alle differenze. Sono aspetti apprezzati da ampie fasce di consumatori, in maniera particolare dai giovani – la Gen Z - più sensibili all’attivismo sociale dei brand. Proprio per questo l’introduzione di referenze inclusive rappresenta - oltreché un’opportunità commerciale – un plusvalore sul piano dell’immagine”.

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