I nsalutato hospite, dieci anni fa morì Francesco Cossiga. Se ne andò alla chetichella dopo avere tenuto la scena politica italiana da protagonista costruendo, demolendo, picconando. Se la filò all'inglese, senza avere preso commiato dai suoi perplessi interlocutori. Li lasciò senza un'interpretazione autentica del suo pensiero, senza la rivelazione dei misteri di cui aveva fatto intendere d'essere il custode, senza avere dato soluzioni ai segreti di Stato dei quali, si diceva, fosse depositario. Tutti, amici e avversari, rimasero appesi a un punto interrogativo: era stato un grande politico, spesso incompreso, oppure un furbo mediocre che si era divertito a prenderli per il bavero o per i fondelli a seconda dell'umore? Con analisi retrospettiva possiamo dire che Cossiga fu l'ultimo dei pochi giganti della nostra politica del secondo dopoguerra. Dopo di lui buio, mezze figure, nanerottoli. Che oggi ridicolizzerebbe con la sua feroce ironia spesso sconfinante nel sarcasmo: a cominciare dal primo ministro che, con sprezzo della grammatica e della sintassi, l'8 agosto scorso ha così ciangottato: «Non possiamo tollerare che arrivano dei migrati addirittura positivi e che vadino in giro liberamente». Venghino, signore e signori venghino allo spettacolo. Più gente entra più bestie si vedono.

TACITUS
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