N on si può cavare sangue da una rapa. Il Parlamento italiano datato 2018, ossia quello attuale, è una rapa. Un'annata storta può capitare a tutti e va messa nel conto della storia. L'importante è non subirne troppo a lungo le conseguenze. La semina quell'anno era andata male a causa di eventi atmosferici bizzarri: prima l'aridità del vento del deserto di Monti, poi la bonaccia umida di Letta seguita dal ciclone Renzi, carico di parole e nuvole; infine la calma piatta e sterile della mezza stagione di Gentiloni. Tutti fermenti nocivi che, andiamo fuori dalla metafora, predisposero gran parte dell'elettorato a un voto sovversivo di protesta. Ne approfittarono i demagoghi e gli arruffapopoli per esacerbare gli animi. Dalle urne non sortì un parlamento, ma una rapa. Dalla quale, ora, un banchiere di caratura internazionale sta provando a cavare linfa vitale. Ma le rape sono toste, come certe teste, e fanno resistenza pretendendo, con spartizione partitica, la conferma di vecchi raperonzoli: agli affari esteri, alla sanità, al Viminale. La ragion politica si abbatte sulla ragion pura. Nonostante un po' di sabbia negli ingranaggi Mario Draghi va avanti perseguendo un suo piano. Questa è la sua ora. Ma per la democrazia non è ancora l'ora legale. Che arriverà soltanto quando andremo a votare.

TACITUS
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