U n rimprovero frequente e giusto al nostro giornalismo è di essere avalutativo. Esempio classico: se Tizio dice che piove e per Caio c’è il sole, il cronista riporta le due frasi ma non va alla finestra a controllare. E qui il discorso si farebbe lunghetto, perché ad affacciarsi alla finestra basta un attimo ma per capire chi mente servono memoria storica, un buon archivio e la voglia di frugarci dentro, la rassegnazione all’immancabile querela del bugiardo, il tempo di ricostruire i fatti anziché liquidare una pagina per buttarsi a titolarne un’altra.

Ma il discorso lo faremo un’altra volta perché all’improvviso il problema del giornalismo è l’opposto: la valutatività. Dopo anni che diamo lo stesso spazio a un virologo e un pazzariello, si grida alla censura perché la Rai non farà il contratto al professor Orsini, quello che dice che se Putin usasse l’atomica l’Ue sarebbe corresponsabile. Non pagarlo per dirlo è censura? E questo mentre i censori veri imprigionano gli oppositori (Navalny) e uccidono i cronisti (da Politkovskaja in giù)? Nessuno arresterà Orsini o gli tapperà i social: potrà dire sempre quel che crede. Con altrettanta libertà, si potrà dire che dargli soldi pubblici per fare un mischione fra democrazie e dittature aggressive servirebbe a fare ascolti, non servizio pubblico. Chi domani si affaccerà ai nostri archivi dirà che pioveva. E c’era una gran nebbia.

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