Non che sia una consolazione, ma i poliziotti americani uccidono anche i cittadini bianchi. Solo che, se sei nero, in caso di arresto hai più del doppio delle possibilità di un bianco di essere colpito a morte. Precisamente, 2,5 volte in più. Dal primo gennaio 2015 al 30 maggio 2020, 5.338 persone sono morte dopo essere state fermate dagli agenti. Di queste, 1.254 erano neri e 2.385 bianchi, poco meno del doppio. Ma negli Stati Uniti gli afroamericani sono circa 42 milioni, il che significa che nei confronti ravvicinati con la pubblica sicurezza sono morti, in quasi cinque anni e mezzo, 30 di loro ogni milione di abitanti. Mentre nell'ambito della popolazione bianca (circa 197 milioni) è capitato a 12 individui per milione. Ecco la ragione della rivolta che si è scatenata in molte città dopo l'omicidio di George Floyd a Minneapolis (perché di questo si è trattato: non è stato ancora definito così da un giudice, ma i tanti filmati dell'accaduto chiariscono i fatti come raramente accade).

Certo, è stata decisiva la forza terribile di quelle immagini, con l'agente Derek Chauvin che schiaccia col ginocchio per quasi nove minuti il collo di Floyd, un 46enne nero ben piazzato. Il suo rantolo disperato ("please, I can't breathe": per favore, non respiro) ha turbato tutto il mondo, ed è diventato l'amaro slogan delle proteste di piazza. L'abuso della forza, da parte degli agenti di pubblica sicurezza, è un problema storico della società Usa: ha diverse cause, la principale è probabilmente la diffusione delle armi tra i civili, che moltiplica i rischi per chi porta un distintivo. I dati dimostrano però che la questione si colora di un'odiosa sfumatura razzista, che la rende ancora più insopportabile. Le cifre a cui stiamo facendo riferimento non sono rese disponibili dal governo federale o dall'Fbi, ma sono raccolte dal Washington Post. Dall'inizio del 2015 il quotidiano aggiorna costantemente un database con tutti i casi in cui agenti delle forze dell'ordine in servizio hanno sparato uccidendo qualcuno. Un'iniziativa nata dopo la morte, nell'agosto del 2014 a Ferguson (Missouri), di Michael Brown, diciottenne afroamericano colpito per sei volte dai proiettili esplosi dalla pistola di un poliziotto bianco di 28 anni, Darren Wilson.

La manifestazione del 13 dicembre 2014 a Washington (foto Ansa)
La manifestazione del 13 dicembre 2014 a Washington (foto Ansa)
La manifestazione del 13 dicembre 2014 a Washington (foto Ansa)

Le indagini successive non hanno escluso che quest'ultimo avesse agito, come da lui dichiarato, per difendersi da un'aggressione. Sta di fatto però che Brown era disarmato, e il crimine per cui era stato fermato corrispondeva al furto di una scatola di sigari. Queste circostanze provocarono diverse ondate di disordini a Ferguson: la prima dopo il fatto, la seconda a novembre quando un Gran Giurì decise di non sottoporre Wilson a processo. Investigando su questi fatti, il Washington Post scopri che l'Fbi aveva dati molto sottostimati su quel genere di incidenti, perché i dipartimenti locali di polizia non hanno l'obbligo di mandare i relativi rapporti al Federal Bureau. Da lì la decisione del quotidiano di creare da sé una banca dati, alimentata da rapporti ufficiali e notizie di stampa accuratamente verificate. Il catalogo del Post non fa distinzione tra i casi in cui l'uso della forza è apparso giustificato e proporzionato, e quelli in cui si sospetti o sia stato accertato un abuso. Si limita a registrare ciascun episodio indicando sempre gli stessi dettagli, una dozzina: nomi, luoghi, circostanze (per esempio se vi sia stata una fuga con inseguimento), il gruppo etnico dei protagonisti, se le vittime fossero armate o in condizioni di disagio psichico, e altri ancora. Non vengono inseriti i casi di morte di persone già in custodia cautelare, o quelli in cui chi ha sparato non fosse in quel momento in servizio. Soprattutto, vengono considerate solo le persone uccise da colpi d'arma da fuoco: quindi non vi rientrerà la tragica vicenda di George Floyd. Così come non vi rientra quella, molto simile, di Eric Garner, che per altro risale al 17 luglio 2014, quindi prima dell'avvio dell'iniziativa del quotidiano. Garner aveva 46 anni, era nero, e fu scoperto dal New York Police Department mentre vendeva sigarette di contrabbando a Staten Island. Per bloccarlo la pattuglia lo strinse al collo per parecchi minuti, mentre era a terra. Anche lui riuscì solo a dire più volte "I can't breathe" prima di morire soffocato. Ma il fatto di non finire nelle statistiche del Washington Post non cambia la gravità di quel che è successo a Minneapolis lo scorso 25 maggio. Oltre alla prevalenza degli afroamericani tra le persone uccise dalla polizia, dalle storie archiviate dal quotidiano emergono altri aspetti interessanti. Per esempio i casi si sono verificati in tutti gli Stati e il loro numero risulta stranamente costante negli anni, sempre lievemente inferiore ai mille nell'arco dei dodici mesi (solo il 2019 ha superato quella soglia, con 1.004).

La sommossa di Minneapolis dopo l’omicidio di George Floyd (foto Ansa)
La sommossa di Minneapolis dopo l’omicidio di George Floyd (foto Ansa)
La sommossa di Minneapolis dopo l’omicidio di George Floyd (foto Ansa)

I neri sono più di un quarto delle vittime di cui si conosce l'etnia, pur rappresentando meno del 13% della popolazione totale. Oltre a loro, anche gli ispanici registrano una probabilità superiore ai bianchi di finire nella casistica: il tasso che li riguarda è di 22 morti per milione di individui, per un totale di 878 episodi. Ci sono poi 214 "fatal shootings" che hanno coinvolto altre minoranze, mentre 607 riguardano persone di cui non si conosce l'identità o l'appartenenza etnica. Com'è prevedibile si tratta in maggior parte di uomini: erano donne 234 vittime su 5.338, circa il 4,4%. La stragrande maggioranza (3.590) aveva un'età tra i 18 e i 44 anni; solo 98 erano minorenni. Per oltre un quinto degli individui uccisi (22,3%) sono state segnalate malattie mentali. Interessante anche il dato relativo alle armi: risulta che appena 318 (meno del 6%) fossero del tutto disarmati. Ben 3.044 (il 57%) avevano una pistola, 918 un coltello, 658 delle armi di altro tipo. E per 179 volte chi è morto brandiva una pistola giocattolo.

Il database del Washington Post non entra nel merito dei singoli casi, ma altre ricerche hanno analizzato l'incidenza della questione etnica nel comportamento della polizia. Gli studi più importanti sono stati elencati qualche tempo fa da Kia Makarechi nella rubrica web "The Hive" per la versione americana di Vanity Fair. Per esempio ce n'è uno della University of California, secondo il quale la probabilità di un nero disarmato di essere ucciso dalla polizia è tre volte e mezzo quella di un bianco disarmato. Invece un'analisi condotta da una commissione di giudici in pensione ha concluso che la polizia di San Francisco, se ferma una persona sospetta, tende a sottoporla molto più spesso a perquisizioni e arresto se si tratta di un nero, benché siano invece i bianchi a farsi trovare con maggior frequenza in possesso di droga o di oggetti detenuti illegalmente. In effetti la disparità a danno degli afroamericani e degli ispanici non si nota solo negli eventi che si concludono tragicamente, ma anche negli altri comportamenti dei tutori dell'ordine. A Chicago, nel 2016, un gruppo di esperti incaricato dalla polizia ha concluso che gli automobilisti neri o ispanici hanno il quadruplo delle possibilità dei bianchi di essere fermati e perquisiti, benché i bianchi vengano trovati in possesso di oggetti illegali il doppio delle volte delle altre etnie. La stessa contraddizione è stata rilevata da ricerche del Dipartimento di Giustizia federale a Ferguson, del New York Times in North Carolina, del Dipartimento dei Trasporti dell'Illinois. Emergono dei forti sintomi di discriminazione verso i neri persino da uno studio spesso citato da chi nega tali discriminazioni: quello di Roland Fryer Jr., enfant prodige della cattedra di economia di Harvard, raggiunta a soli 30 anni. Nel 2016 un suo articolo ha affermato che i neri non hanno più probabilità statistiche dei bianchi di essere uccisi dalla polizia. Molti hanno criticato questi risultati, anche perché si riferiscono a dati relativi alla sola città di Houston e in più si basano esclusivamente sui rapporti degli agenti, spesso non del tutto affidabili. Ma il fatto che lo stesso Fryer sia un afroamericano ha dato grande risalto alla sua ricerca, consentendo ad altri commentatori di vedere confermate le proprie convinzioni sull'inesistenza di una questione razziale per le forze dell'ordine. Eppure quello stesso lavoro ha comunque riaffermato che con i neri i poliziotti sono molto più inclini a usare le maniere forti: come puntare una pistola, spingere il sospetto a terra o contro un muro, ammanettarlo, spruzzare spray al peperoncino, usare il manganello. Insomma, il colore della pelle risulta di fatto il dettaglio che può trasformare la presunzione di innocenza in presunzione di colpevolezza. Non sempre conduce a un esito fatale, ma spesso rende più difficile convincere gli agenti a lasciarti andare, pur in assenza di chiari indizi di reato. "A Paterson le cose vanno così, se sei nero meglio non farti vedere in giro, se non vuoi rogne": lo cantava Bob Dylan nel brano dedicato al pugile nero Rubin "Hurricane" Carter, ingiustamente condannato per omicidio. Era il 1975. Quasi mezzo secolo dopo, sembra un consiglio ancora valido.
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